L'analisi

Un presidente alla deriva

‘Unfit to lead’, non in misura di governare, sentenziano da tempo i suoi avversari politici

15 gennaio 2018
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‘Unfit to lead’, non in misura di governare, sentenziano da tempo i suoi avversari politici. Lo spettacolo che ci propone il ‘commander in chief’ della superpotenza è dei più desolanti. Trump è atteso al Wef di Davos in un clima di crescente ostilità internazionale: per timore di contestazioni (anche se le motivazioni addotte sono altre) ha già rinunciato al viaggio in Gran Bretagna. «Ha capito che qui è persona non grata» ha sentenziato il sindaco di Londra. Si erano appena accese polemiche e discussioni sul libro-rivelazione di Michael Wolff, che Trump ha rincarato la dose con affermazioni che hanno suscitato un coro unanime di indignazione per i loro risvolti xenofobi. Definendo i paesi africani, Haiti o El Salvador «shitholes», «paesi cesso» o «merdai» (a seconda delle traduzioni), ha sdoganato un razzismo da bar.

Il presidente nega di aver mai detto tali parole, ma ormai ci ha abituati alle menzogne scrive il ‘New York Times’, che con una virulenza inedita lo definisce bugiardo (“he’s a liar”), razzista, bigotto, indecoroso. I deputati presenti, confermano in effetti che sì, ha proprio proferito tali epiteti esprimendo il desiderio di aprire le frontiere a immaginari immigrati della Norvegia.

Tra gli indignati, non vi sono solo gli oppositori: disgusto lo ha ad esempio espresso uno dei leader repubblicani al senato Lindsey Graham. Dimissioni in segno di protesta dell’ambasciatore Usa a Panama, presa di distanza da parte del capo della diplomazia Tillerson, richiesta di scuse ufficiali formulata con toni perentori dai 55 paesi dell’Unione Africana. L’America, paese di immigrati, mantiene nella sua legislazione delle disposizioni di apertura (ricongiungimento familiare in particolare) risalenti al 1965 con correttivi successivi negli anni 90.

Trump, secondo gli storici dell’immigrazione, starebbe di fatto rivalutando l’ideologia portata avanti all’inizio del XX secolo dalle correnti eugenetiche, in particolare quelle di Madison Grant che preconizzava porte spalancate a migranti inglesi e tedeschi, socchiuse per ebrei e italiani, blindate per gli asiatici. La comunità afro-americana è particolarmente colpita dalle parole di un presidente che già in campagna elettorale non aveva preso le distanze dal Ku Klux Klan che lo aveva appoggiato («non conosco questi signori, non mi esprimo» si era schermito).

Nel suo libro ‘Fire and Fury’, il giornalista Michael Wolff ritrae una Casa Bianca in preda al caos, con un presidente considerato dal suo stesso staff incompetente, emotivamente e mentalmente limitato (se non addirittura «un idiota»), umorale, che si comporta come un bambinone di 9 anni, viziato, alla continua ricerca di gratificazioni immediate. “Il 45esimo presidente è dello stesso partito di Abraham Lincoln” scrive ‘Le Monde’ ironizzando “tanto per dare un’idea del cammino che è stato percorso in un secolo e mezzo”.

Le grandi figure della storia americana, con le loro visioni per il paese (dai due Roosevelt, a Eisenhower, Kennedy, Johnson o Reagan) appaiono lontani anni luce. Forse, ipotesi avanzata da più parti, Trump esprime – seppur in modo grottesco – il declino di un paese.

Reagendo con sconforto alle ultime sparate del presidente, lo scrittore Stephen King ironizza “ma perché mai i norvegesi dovrebbero immigrare da noi: in Norvegia beneficiano di un’assicurazione malattia universale, di congedi parentali inimmaginabili da noi e di una speranza di vita ben superiore a quella dei miei concittadini”.

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