L'analisi

I regali avvelenati di Trump

11 dicembre 2017
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Bisogna pur dirlo. C’è una buona dose di “tartufismo”, di ipocrisia, in certe meccaniche reazioni anti-Trump dopo la sua decisione di trasferire l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme.

Per esempio: è di ventidue anni fa il voto del Congresso americano che impegna gli inquilini della Casa Bianca a riconoscere la “città santa” quale capitale dello Stato ebraico, e l’allora presidente Clinton, uno assai abile nel negoziare con il Congresso, non si stracciò certo le vesti per quella votazione. Oppure: chi ha mai pensato davvero che in tutti questi anni l’America sia stata un arbitro imparziale della crisi arabo-israeliana, quando (Eisenhower a parte durante la lontana crisi di Suez) tutti i leader della superpotenza sono sempre stati arrendevoli nei confronti del difficile alleato medio-orientale, la cui acritica protezione è sempre stata la stella polare della politica statunitense nella turbolenta regione?

Tutto questo per dire che in fondo Trump non ha tutti i torti? Evidentemente no. Non solo ha il torto di usare con pericolosa disinvoltura una materia altamente infiammabile: in effetti Gerusalemme, oltre a rappresentare un micidiale nodo politico-religioso, ha in sé anche un valore simbolico esplosivo e irrazionale.

Il suo gesto è ancora più rischioso e grave perché in sostanza, al di là di fumosi e retorici auspici di dialogo fra le parti in conflitto, lascia mani libere a Israele. Meglio: a un governo israeliano in cui prevalente è la componente di una destra nazionalista e annessionista che punta al progetto di Heretz Israel, la Grande Israele che si estende dal Mediterraneo al fiume Giordano, e che include i territori palestinesi occupati, oltre che le alture del Golan ex siriano, anch’esso proclamato, come Gerusalemme, parte integrante del Paese che ha via via allargato i propri confini con le conquiste militari.

E cosa farà Nethanyau di quell’assegno in bianco generosamente e pericolosamente messo nelle sue mani dal tycoon-presidente? Nulla o quasi, si teme. Un Bantustan palestinese fortemente frazionato, una sorta di apartheid, un briciolo di autonomia, al massimo un paio di edifici nella parte araba di Gerusalemme dove insediare una improbabile autorità palestinese.

In definitiva, la domanda di fondo è una, e una soltanto: è possibile che l’Arabia Saudita possa accettare il sacrificio della città santa, della spianata delle Moschee, del terzo luogo santo dell’Islam, in cambio della comune sfida anti-iraniana, che oggi lega il regime saudita e la destra israeliana, legame incoraggiato e sponsorizzato dagli Stati Uniti?

Difficile pensarlo, visto che la resa su Gerusalemme non potrebbe che ulteriormente indebolire la monarchia wahabita nel suo reale o preteso ruolo-guida dei musulmani, gelosa custode dei “santuari” della maggioranza sunnita, insieme alla Mecca e a Medina.

Intanto, e per certo, l’irriflessiva mossa di Trump può trasformarsi non solo in una nuova Intifada (in effetti assai problematica viste la debolezza e la mancanza di leadership del fronte palestinese), ma soprattutto in un duro colpo per i governi arabi moderati e in un nuovo argomento propagandistico per il radicalismo islamico. Per quel jihadismo che, sconfitto sul campo di battaglia, potrebbe cercare la sua sanguinosa rivincita al di qua del Mediterraneo. Fra i “crociati” europei che si distanziano da Trump ma ne devono subire la politica della forza e dei fatti compiuti.

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