L'analisi

Il ‘rischio calcolato’ di Pyongyang

30 novembre 2017
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Il vestito rosa dell’annunciatrice di regime era quello delle grandi occasioni, ma tra il proclamare di avere raggiunto lo storico status di “potenza nucleare” e l’esserlo in realtà c’è ancora spazio per il dubbio. Allo stesso modo, tra la minaccia di scatenare un’apocalisse e la determinazione a farlo (intesa come capacità di visione, o quantomeno di non tradurla in un catastrofico atto di autolesionismo) resta una notevole differenza.

Che dunque Kim Jong-un possa e voglia colpire gli Stati Uniti, e che Donald Trump sappia che cosa dice quando evoca “furia e fuoco” sul regime nordcoreano, sono entrambe possibilità che espongono il mondo a un rischio gravissimo, ma non sono scadenze inevitabili nell’agenda della storia. Diciamo che non lo sono ancora, ma potrebbero diventarlo se la vicenda dovesse davvero ridursi al conflitto tra due personalità con inquietanti sintomi di alterazione. Una variabile, questa, la cui irrazionalità potrebbe innescare il conflitto.

Per il resto, lo scenario non sembra così inspiegabile.

Il regime nordcoreano – regime criminale che affama e detiene i propri cittadini – è chiaramente determinato a perseguire la via del “rischio calcolato”. La tattica del continuo rilancio risponde, da un lato, a una esigenza di propaganda interna e di conferma della preminenza dell’apparato militare nella determinazione delle sorti del Paese; dall’altro mira a imporre il riconoscimento di Pyongyang come interlocutore nelle sedi internazionali (non più ormai interlocutore ordinario, ma della ristretta cerchia delle potenze nucleari) e a smascherare il bluff del nemico.

Un “calcolo del rischio” che se si rivelasse errato non avrebbe altro esito per il regime che la sua rovina definitiva. Quanto il giovane Kim ne sia cosciente è difficile dire, ma il contesto fornisce molti elementi che fanno presumere che lo sia.

La Corea del Nord di cui è diventato padrone per privilegio dinastico si è trovata in qualche misura “sola” sullo scacchiere internazionale. Le due potenze che se ne erano fatte garanti in passato, o non esistono più (l’Urss) o sono distratte da ben altre priorità (la Cina), mentre del vincolo ideologico non c’è più traccia. Da loro Pyongyang può tutt’al più aspettarsi un episodico, ambiguo e indiretto sostegno in mera funzione di disturbo nei confronti di Washington (o per non trovarsi, Pechino, i marines a ridosso del confine). Un isolamento e un senso di accerchiamento completato dal divario rispetto a un Sud che oltretutto, a seconda del presidente in carica, evoca la riunificazione della penisola come sviluppo inevitabile, e inevitabilmente a spese dello stesso regime di Pyongyang.

Se questo è uno scenario plausibile, Kim è con le spalle al muro o sul punto di esserlo. Difficilmente capitolerà. Mentre le spinte per condurlo alla resa – questo e non altro sembra volere Washington – stanno già producendo effetti che paiono avvicinare uno scontro e aggravarne la portata: il riarmo massiccio nell’intera regione (a beneficio dell’industria bellica Usa), la riconversione giapponese a un concetto di “difesa offensiva”, l’imminenza di sanzioni che si configurerebbero come un vero e proprio “blocco”.

Ed è facile comprendere che a questo punto la retorica sul pericolo Kim per il mondo e sulla necessità di fermarlo altro non è che uno schermo dietro il quale già si computano i costi dell’eventuale/possibile conflitto. Conti, e questa è l’altra parte del guaio, che un Donald Trump si picca di saper fare.

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