L'analisi

Non solo Sicilia

9 novembre 2017
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La Sicilia è la Sicilia, d’accordo, ma non si può ignorare come e quanto il risultato delle elezioni regionali potrà proiettarsi su quelle nazionali della prossima primavera. O provarci, almeno.

Intanto va detto che la destra vincitrice e quella sconfitta – stracciando entrambe un Pd e una sinistra sfiancati dalle proprie contraddizioni – si sono disputate il primato di meno della metà degli elettori. Il trucco di vantare percentuali di consensi identiche o leggermente salite rispetto a quelle del turno elettorale precedente è facilmente smascherato una volta che le si traduca in numeri assoluti.

In questo quadro generale, la vittoria della destra, di un presidente post-fascista, non è una grande sorpresa. Lo fu, semmai, quella di Rosario Crocetta (sostenuto dal centrosinistra), cinque anni fa: fortunosa e quasi rocambolesca. Una parentesi in una tradizione consolidata.

Né può sorprendere il tonfo di ciò che resta del Pd. La leadership erratica e narcisa del suo segretario raccoglie, meritatamente, ciò che ha seminato. Mentre alla sua sinistra, velleitarismo e risentimento sembrano per ora produrre nient’altro che un improduttivo (e inaffidabile) cameratismo da reduci.

Sicché, il segnale politico più interessante parrebbe piuttosto questo: la sconfessione, certificata dall’altissima percentuale di astenuti (più che dall’aver mancato una vittoria data per certa), del partito di Grillo. Quel “popolo” disgustato dalla politica, dalla casta eccetera, e che solo nei 5Stelle avrebbe dovuto trovare salvezza, non se li è filati. Se davvero la missione di cui si credono investiti è quella di “riportare la gente” alla politica, faranno bene a disilludersi, o almeno a ripensare al modo in cui la conducono.

E poi c’è Berlusconi, del quale non pativamo la mancanza (se non come fonte di ispirazione…). Assegnare a lui il merito del successo della destra è corretto, ma solo in parte. Se non altro perché Berlusconi non aveva contro un Prodi o un Ulivo, ma una masnada di concorrenti che in larga parte pescano in quello che a lungo è stato il suo stesso elettorato, e talvolta ne sono un prodotto. Con tutto che, data la sua incandidabilità, anche alle prossime politiche Berlusconi potrà tutt’al più valere da brand, l’equivalente della griffe cucita su capi “di lusso” prodotti da proletari sottopagati in paesi del terzo mondo. E bisognerà vedere se gli appetiti suscitati da una vittoria che ne promette altre non finiranno per far scannare tra di loro i sempiterni rivoluzionari di corte: una volta Fini e Bossi; oggi Salvini e Meloni.

Ma l’interpretazione di questo scenario, forse meno agevole e perciò più interessante, sembra un’altra, pur la Sicilia restando la Sicilia. Non si poteva cioè pensare che l’Italia, avendola in definitiva aiutata a nascere, restasse immune dall’ondata di destra (quella sovranista, identitaria eccetera) che cresce in tutta Europa.

Se in Francia quel furbone di Macron (presto si vedrà se non è soltanto un Renzi che ha studiato) è riuscito a fermare Marine Le Pen, è solo perché nel confronto diretto la maggior parte degli elettori – e comunque pochi anche lassù – non ha avuto lo stomaco di votare un’improbabile Giovanna d’Arco finita lì in virtù del cognome fascista che porta. Mentre in Germania solo il grigiore programmatico di Angela Merkel ha potuto arginare (per l’ultima volta, probabilmente) la crescita di Alternative für Deutschland. Altrove, dall’Olanda all’Austria, i governi si formano con il sostegno dell’estrema destra, o scippandola dei suoi contenuti.

Perché l’Italia dovrebbe fare eccezione? Forse perché Renzi si illude ancora di riuscire a spacciare il proprio vuoto per un “pieno” di idee? Nuove, oltretutto?

No. Il nuovo oggi viene da “quella” destra, libera dai tabù del dopoguerra, padrona di un linguaggio che media vecchi e nuovi hanno veicolato e reso “accettabile”. La Sicilia allora è la Sicilia, l’Italia, l’Europa.

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