L'analisi

Alle origini di una guerra

2 novembre 2017
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L’immagine è probabilmente scontata, ma è come se la “guerra” fosse tornata, a New York, là dov’era partita. Rivelando quanto sono cambiate la sua natura e le sue tecniche (dai costi e dalla complessità di un attacco alle Torri gemelle, al fai-da-te del pick-up sui passanti), e confermando quanto ancora a lungo dovremo convivere con essa.

Se l’attacco dell’11 settembre 2001 intendeva far sentire l’Occidente “trascinato” in guerra, certamente vi riuscì. Una guerra pretestuosamente guerreggiata in Afghanistan dapprima e in Iraq poi; e, su un altro piano, una guerra ideologica, o confessionale o di civiltà o come diavolo la si voglia chiamare.

Le apparenti vittorie nelle prime hanno forse illuso, se non sulla giustificazione, sull’opportunità e l’efficacia di un impiego di forze spaventosamente superiori a quelle del “nemico”. Risultato: i taleban sono tornati in Afghanistan, mentre dal buco nero iracheno si è originata una destabilizzazione regionale colossale e tragica – le cui ultime manifestazioni sono la catastrofe siriana e l’Isis – che prelude a un rivolgimento strategico di cui si vede appena l’inizio. A conferma che muovere guerra contro gli Stati per combattere un nemico che proprio nell’assenza di uno Stato trova modo di affermarsi, è il modo più sicuro di perdere le guerre pur vinte sul campo di battaglia. Oltre ad essere un criminale scialo di morte.

L’altro problema, infatti, è che quel “nemico” non dispone di strategie, se mai ne ha avute (considerando qui una minuscola parentesi della storia la suprema, sanguinaria vanità che lo ha spinto a proclamarsi “Stato”, con le parole di al Baghdadi), e di conseguenza questo impedisce di studiarle e contrastarle. No, questo nemico – senza virgolette, infine, perché è inutile far finta che tale non sia – manca di strategia e dispone soltanto di armi. Una in particolare, e formidabile: l’odio.

Sarà bene ristudiarne le origini (in una teologia islamica letteralista) e le cause (rileggendo la nostra storia di civiltà che ha piantato la propria bandiera ovunque nel mondo, incurante di chi già vi si trovasse). Ma occorrerà soprattutto riprendere coscienza che un’arma simile sfugge ai metal detector, ai blocchi di jersey che chiudono gli accessi a sempre più strade e piazze delle nostre città, ai pervasivi impianti di videosorveglianza, alle chiusure delle frontiere. L’odio è un’arma immateriale, che rende a sua volta un ordigno chi lo nutre in sé.

E questo non è un invito alla rassegnazione, ma semmai a prendere le misure a un fenomeno che è ormai connaturato alle nostre società (e che peraltro non è di esclusiva marca islamica), destinato a durare e a mutarle.

Compito di chi queste società governa sarebbe quello di fare tutto il possibile per proteggerle dalla violenza dei terroristi, ma anche quello di risparmiare loro le menzogne della propaganda.

Le smargiassate di un presidente che minaccia apocalissi sulla testa di un gradasso estremo-orientale, si rivelano perciò l’idiozia che sono, quando basta un pick-up per compiere la strage più grave compiuta a New York dopo l’11 settembre.

Può essere imbarazzante, per chi ha millantato una miracolistica capacità di “rifare grande l’America”, scoprire che mettere su la faccia cattiva non tiene lontani i terroristi (o i malati di mente, come si ostina a chiamarli), ma limitarsi a dire, via Twitter, che “il politicamente corretto è buono, ma non serve in questi casi” è una tautologia, ma soprattutto l’ammissione di non sapere che pesci pigliare.

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