L'analisi

Trump nelle mani dei suoi generali

28 agosto 2017
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L’Afghanistan è anche chiamato “la tomba degli imperi”. Fu costretta a ritirarsi la Gran Bretagna, la massima potenza coloniale dell’epoca. E anche l’Unione Sovietica, che cominciò a naufragare proprio con la bruciante e drammatica sconfitta militare dell’Armata Rossa, subita per mano dei mujaheddin islamisti, che furono i mallevadori di Bin Laden e di al Qaida.

Ora, pochi dubitano che anche gli Stati Uniti saranno costretti a lasciare il campo di quella che è diventata la guerra più lunga della storia americana. In effetti, non potranno essere i quattromila marines in più che Donald Trump ha annunciato di voler aggiungere agli ottomila ancora operativi sul territorio afghano a rovesciare le sorti del conflitto. Ma allora cosa c’è dietro il voltafaccia di un presidente che inviava velenosi tweet ai suoi predecessori, invocando il ritorno dei soldati americani in armi dall’altra parte del mondo, in nome dell’“America first”?

C’è, innanzitutto, la crescente influenza dei generali, mai così numerosi in un’amministrazione statunitense. Sono decisamente gli uomini del Pentagono a dettare la politica estera di un presidente troppo isolazionista e troppo filo-russo per i gusti dei vertici militari americani: così i vari Mattis, McMaster, John Kelly (che in Afghanistan ha perso il figlio) hanno ormai saldamente in mano il timone della strategia di un capo della Casa Bianca poco interessato e ancor meno preparato ai problemi della difesa.
Parallelamente, l’ascesa dei vertici in divisa segna la sconfitta degli ideologi di destra, come conferma l’allontanamento del loro ideologo Steve Bannon, che aveva criticato anche con toni derisori le posizioni del Pentagono. Errore fatale. Ma c’è dell’altro nella “normalizzazione” del presidente che prometteva di chiudere un’epoca, ed è invece costretto ad uno svogliato ripensamento. Devono avergli spiegato, quei generali, che l’America rischia sempre più, e in tempi rapidi, un secondo Vietnam. L’ultimo rapporto statunitense segnala che il debolissimo governo di Kabul, puntellato dalla coalizione internazionale, controlla soltanto il 40 per cento del territorio nazionale, mentre ancora un paio di anni fa si stimava che fosse il 60 per cento.

Non solo l’intervento americano ha gettato ancor più afghani nelle braccia dei Talebani: questi, nelle ultime settimane e per la prima volta, hanno condotto attacchi in alleanza con gli insorti dell’Isis, alleanza finora considerata impossibile. Dopo anni di continui scontri fra i due radicalismi islamici, una saldatura pericolosa e inquietante per gli esiti del conflitto.

Forse sta proprio qui la chiave del dilemma. Da tempo l’America (che in questa guerra ha perso più di duemila uomini, senza dimenticare le decine di migliaia di vittime afghane in gran parte civili) cerca un dialogo con i Talebani. Senza successo. L’invio di un contingente supplementare, decisamente insufficiente per evitare una débâcle, può solo significare che il Pentagono continuerà a cercare una “exit strategy” politica, ma evitando di trattare da una posizione di eccessiva debolezza militare.

Calcoli ad alto rischio. Una storia secolare ci dice che quelle terre non sono abituate al compromesso, bensì alla logica guerriera. Non basta la retorica usata da Trump per nascondere l’umiliante torsione che gli è stata imposta. L’ombra della “tomba degli imperi” si allunga anche sulla sua presidenza.

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