L'analisi

E Trump sdoganò i suprematisti

(Steve Helber)
14 agosto 2017
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«Guardati allo specchio e ricordati che sono stati i bianchi americani a regalarti la presidenza». È il rimprovero che David Duke, ex leader del Ku Klux Klan, ha rivolto a Donald Trump. Colpevole di aver pronunciato sui gravi fatti di Charlottesville parole di condanna così tiepide, così scontate, così generiche da essere sommerso dalle critiche anche da parte degli ambienti repubblicani. Un presidente, il ‘Don’, che ha a lungo flirtato con la feccia razzista dei suprematisti bianchi, che nei suoi attacchi ossessivi al predecessore Obama non ha disdegnato i loro strampalati argomenti razzistico-religiosi (musulmano, figlio di un africano, non legittimato a guidare la nazione), e che alla Casa Bianca si è portato un esponente di questa impresentabile ‘alt-right’, Steve Bannon, l’‘anima nera’ che Trump ha tentato di imporre come suo principale collaboratore, e comunque rimasto ascoltato ‘consigliori’.

Sdoganare così sfacciatamente il peggio prodotto dalle paure e dall’odio di questa pur piccola parte del Paese comporta una precisa e pesante responsabilità politica. Le squadracce che hanno sfilato nella città della Virginia, definita “cuore dell’America jeffersoniana” (al presidente umanista Davis Jefferson si deve infatti la fondazione della locale università), e che protestavano contro il progetto di rimuovere la statua di un generale segregazionista, sono il prezzo che una nazione profondamente lacerata paga alla strategia di un presidente che per buona parte della sua campagna elettorale non ha affatto disdegnato gli insulti, le fandonie, le oscenità, il razzismo anche antisemita che impastavano i quotidiani attacchi di radio locali e siti web del tipo Breitbart News ispirato da Bannon l’amico e confidente del presidente.

Certo, l’America bianca non è questa, non va confusa e assimilata con gente che nei suoi cortei sfila anche con la bandiera nazista che non molti decenni fa i loro padri e nonni combatteremo sino a sacrificio della vita. Non è certo per un’aspirazione suprematista, per un’istinto razzista, per il sogno di ripristinare antichi ruoli e privilegi che nel novembre 2016 una parte consistente di bianchi americani ha votato Trump, bensì per la rivolta contro un capitalismo finanziario rapace da parte di una classe media sempre più impoverita e di una classe operaia pagata sempre meno. Trump, pur con tutte le contraddizioni e le menzogne più volte denunciate, è il prodotto delle crescenti ingiustizie e disuguaglianze sociali.

Tutto questo, però, sullo sfondo di un’America bianca che più o meno consciamente teme la progressiva perdita di peso nella società multietnica, sapendo che fra non molti anni anche in termini numerici essa sarà inevitabilmente minoranza demografica nel mosaico statunitense. Proprio per questo l’aver condiviso alcune delle idee e degli uomini vicini alle tesi di un suprematismo violento e fuori tempo è miscela esplosiva, è una grave macchia politica, che pesa come un macigno sul 45esimo presidente americano. Che non ne sembra affatto consapevole. Tanto che, per avere un giudizio netto e circostanziato di condanna dei neonazisti calati in Virginia s’è dovuto attendere un tweet riparatore della figlia Ivanka, la ‘first daughter’, che ha quantomeno avuto la saggezza di scrivere che “non c’è posto nella società per suprematisti bianchi e neonazisti”.

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