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La scintilla e la prateria

Le proteste in Cina rivelano il malcontento per le opprimenti politiche ‘zero Covid’ imposte dal governo, e investono la figura di Xi Jinping

In sintesi:
  • Migliaia i manifestanti in piazza in tutto il Paese
  • Pechino ribadisce il pugno di ferro
  • Colpisce l'estensione della protesta
(Keystone)
29 novembre 2022
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"Una scintilla può incendiare una prateria". Il significato dell’aforisma di Mao Tse-tung non lascia molti dubbi soprattutto se a scandirlo è uno delle migliaia di manifestanti che in diverse dozzine di città cinesi hanno osato sfidare il regime. Le proteste hanno avuto quale molla la politica "zero Covid" a cui è strettamente legata la figura dello stesso Xi Jinping. Da Shanghai a Qingdao, nell’Est del Paese, da Chengdu nel Sudovest alla centrale Wuhan, epicentro della pandemia, fino a Urumqi capitale dell’osservato speciale di Pechino, lo Xinjiang, le manifestazioni si sono estese a macchia d’olio. La protesta non può essere al momento paragonata a quella di Piazza Tienanmen, tuttavia la sua estensione oggi è maggiore di quella che nella primavera del 1989 si concluse in un bagno di sangue, ma rimase circoscritta alla capitale.

La scintilla, dunque. Secondo i manifestanti sarebbe stata la morte in un rogo di una decina di inquilini di uno stabile di Urumqi, intrappolati dalla chiusura delle porte con catenacci decisa nel quadro delle misure di confinamento. Un lockdown tragico che ha fatto esplodere il risentimento nel Paese. Non irrilevanti sarebbero state anche le immagini provenienti da Doha: davanti agli occhi di milioni di cinesi rinchiusi nei loro appartamenti, in spazi spesso molto esigui, decine di migliaia di spettatori riempiono gli stadi celebrando la festa sportiva senza alcuna maschera protettiva.

Pechino comunque non cede, anzi ribadisce il pugno di ferro sanitario. Di fatto la sua versione della lotta al Covid convince sempre meno. A cominciare dai numeri. Il calcolo della mortalità suscita molte perplessità non solo tra i manifestanti, ma pure tra gli specialisti (la rivista Lancet, ad esempio). La critica si focalizza sui danni collaterali di un lockdown tanto inflessibile: morti di solitudine, di depressione, persone che non hanno potuto accedere a cure per altre patologie, malattie mentali, suicidi. Le statistiche ufficiali sulla pandemia non li considerano. "Non abbiamo bisogno di test, ma di libertà" esclama una manifestante citata dal corrispondente di Le Monde a Shanghai. Il ferreo controllo sociale orwelliano – con la rete di software, videocamere, microchip tra le più elaborate al mondo – è la spada brandita dallo Stato, che come il Leviatano del filosofo britannico del 600 Thomas Hobbes può stabilire ciò che è giusto e ciò che non lo è, cancellare la libertà dei sudditi per imporre il volere del sovrano.

Qui e là si sono sentiti slogan che chiedono le dimissioni dello stesso presidente, da poco rieletto al suo terzo mandato. Una crisi sanitaria e sociale (tra le proteste più significative quelle inscenate dagli operai negli stabilimenti della Foxconn che fabbrica gli iPhone) e forse anche politica. Perché del successo presunto della strategia "zero Covid" (giustificato anche dal bassissimo numero di anziani sottoposti al booster vaccinale) il regime ha fatto una vera e propria arma di propaganda. L’assenza di una società civile e l’asfissiante tutela del partito sulla società hanno portato le autorità a trascurare il sensibile equilibrio tra libertà e sicurezza, imponendo draconiane, prolungate prigionie a centinaia di milioni di cittadini senza offrir loro nessuna prospettiva, proprio mentre esplode il numero di contagi. Decisamente troppo anche per una popolazione molto paziente che, per tradizione confuciana, ha ben impressa la gerarchia dei ruoli sociali.

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