laR+ IL COMMENTO

Tra armi, pace e giustizia

Cosa ci dice la ritirata russa a Kherson delle sorti della guerra? Alcuni spunti di riflessione

In sintesi:
  • Gli effetti del dietrofront sono ancora incerti
  • Resta il fatto che le armi fornite agli ucraini spostano gli equilibri
  • Un triangolo fragile unisce il fronte, la pace e la giustizia
(Keystone)
12 novembre 2022
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È difficile indovinare quali saranno le conseguenze della ritirata russa da Kherson, anche perché è lecito supporre che non lo sappia neppure il Cremlino. Resta da capire se si tratti del classico "reculer pour mieux sauter", una tattica di concentrazione delle forze in previsione di futuri attacchi altrove, d’un bluff, oppure d’un più prosaico darsela a gambe. Fatto sta che stiamo assistendo al terzo importante dietrofront, dopo quello da Kiev poco dopo l’inizio del conflitto e quello da Kharkiv, e anche nella nebbia della guerra una cosa è certa: abbandonare una delle città-simbolo dell’invasione – dichiarata russa poco più d’un mese fa e conquistata a forza di tradimenti, saccheggi, torture, espropri, furti, deportazioni, rapimenti e referendum farsa – costituisce un segnale di profondo sbandamento e una sconfitta urticante per Vladimir Putin, anche sul piano simbolico.

Un’altra cosa è ugualmente certa: se si fosse dato retta a chi consigliava di non armare gli ucraini, oggi vedremmo un’avanzata russa invece d’una ritirata. Buona parte degli esiti recenti si deve infatti, oltre che alla maggior determinazione e organizzazione delle truppe di Zelensky, proprio alle armi occidentali, in particolare ai sistemi missilistici americani che hanno permesso di allungare e sfibrare fino a spezzarle le linee degli approvvigionamenti russi, mentre le sanzioni – che servono, altroché – ne azzoppano l’arsenale. C’è chi, come il teleprofessore Alessandro Orsini, lo nega ancora: l’impressione è che dal primo giorno di guerra, quando auspicavano un’immediata capitolazione di fronte al ‘formidabile’ esercito russo, certi soggetti cerchino di svalutare una realtà che confuta le loro scombiccherate teorie, vuoi per accecamento ideologico, vuoi per ordinaria malafede.

L’avanzata ucraina non deve far gioire: non c’è gioia quando si è costretti a rispondere alla violenza con la violenza. Deve però far pensare, questo sì. Pensare ad esempio a quanto gli equilibri bellici siano importanti anche per la diplomazia, se davvero si vuole raggiungere la pace. Perché quella la vogliamo tutti, soprattutto un popolo che non si è certamente scelto quest’anno di piombo, ma non ha alcuna intenzione di ottenerla in cambio d’un vassallaggio verso Putin, e dagli torto.

Se insomma la pace è quel che si può e si deve cercare – anche evitando sanguinarie vendette e compiaciute umiliazioni rivolte all’orso russo –, occorrerà situarla in quel fragile triangolo che la unisce al bisogno di giustizia e alla realtà sul campo. Solo le crescenti difficoltà ‘in trincea’ potranno costringere Putin al dialogo, permettendo al conflitto di risolversi in modo giusto e accettabile per chi da quasi un anno subisce l’invasione. In caso contrario – quello d’una resa, lo scenario più plausibile se si desse retta ai fautori del disarmo – sarebbe proprio la giustizia a mancare, visto che possiamo ben immaginare come andrebbe a finire: Paese smembrato, sovranità limitata, diritti umiliati, patti violati a piacimento dal Cremlino. E altri autocrati ingolositi dalla possibilità di espandersi scommettendo sulla remissività occidentale. Poi ancora violenza, "esasperata, eterna, infinita, diretta o mascherata", per usare gli aggettivi coi quali Vasilij Grossman specificò l’essenza di certi regimi. Ecco: una pace così ingiusta sarebbe davvero tale oppure, come da monito tacitiano, sarebbe piuttosto un deserto? Domanda retorica, risposta tragica.

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