LA TRAVE NELL’OCCHIO

Il disastro rimosso

I cambiamenti climatici non sono proprio in cima alle preoccupazioni degli svizzeri. L’analfabetismo politico non aiuta

In sintesi:
  • Se un accadimento, pur grave, appare lontano e graduale, tendiamo a ingnorarlo
  • I sacrifici dispiacciono e la politica non aiuta
(Ti-Press)

Da un recente sondaggio risulta che fra le preoccupazioni degli svizzeri vi siano i costi della salute, le pensioni, la sorte dell’Avs. La pandemia pare non faccia più paura. E dei cambiamenti climatici si parla, ma con un certo distacco: non c’è la stessa apprensione suscitata dal contagio, insomma qualcuno provvederà. Leggete, tanto per citarne uno, Daniel Defoe: descrive i comportamenti del genere umano durante la peste di Londra del 1665 e certe scene ci sono note e si ripetono. Allora come oggi si consigliava l’isolamento e la lontananza e lo spazio prossemico diventò un cruccio diffuso. Allora come oggi erano parecchi che, in preda a incontrollabili dissesti neurologici, indicavano le ragioni del disastro: il complotto satanico, la punizione divina andavano per la maggiore (la peste come "giusta ira di Dio… a nostra correzione mandata sopra i mortali"). Cose di altri tempi? Non proprio! Oggi perfino la scienza in certi ambienti è esecrabile e lo scienziato un prezzolato profittatore. E poi c’è QAnon, la stampella trumpiana, che ci avvisa: vi sono reti pedofile e conventicole ebraiche che tramano nell’ombra. L’ignoranza primeggia, anzi dilaga. È come il mal di testa: non c’è una cura definitiva e ritorna sempre! Un’ennesima dimostrazione che la fede illuministica nel progresso pecca di ottimismo: non si va sempre avanti, spesso si torna indietro.

Perché – mi son chiesto – il medesimo assillo sulle nostre sorti terrene non lo abbiamo al cospetto delle devastazioni planetarie? Perché il cambiamento climatico, la scomparsa dei ghiacciai, la deforestazione, le bombe d’acqua, le montagne che crollano, il crescente inquinamento non ci fanno desistere da comportamenti infausti per l’ambiente? Perché, mi chiedo, il riscaldamento del pianeta che negli ultimi 20 anni ha causato mezzo milione di morti, e le proiezioni del Global Climate Risk Index che ci prospettano addirittura 250’000 morti ogni anno, non suscitano uguale panico? Perché, di fronte a certi disastri, non andiamo a cercarne le ragioni profonde ma discutiamo sul dissesto idrologico, sul territorio antropizzato, sulla mancata prevenzione? Perché solo un quinto scarso delle persone ha un’alta percezione del rischio che stiamo correndo mentre gli altri o sono indifferenti o guardano dall’altra parte o sono semplicemente ignari?

Una spiegazione ce la offre, in parte, la teoria della costruzione sociale del rischio. Ci dice alcune cose importanti. Ci dice che se un accadimento pur grave, come il cambiamento climatico, è dilatato nel tempo, e si sviluppa per gradi su una scala temporale molto ampia, magari lontano dai nostri occhi, alla lunga sfugge alla nostra attenzione: la percezione del rischio è bassa e può indurre a ignorare il fenomeno, a sentirlo come un problema di altri.

Il contagio invece si sviluppa su una scala temporale breve, ci investe in pieno e la percezione del rischio è molto alta: le bare accatastate, gli ospedali pieni, le strade vuote ci danno l’orribile sensazione di impotenza.

Ma c’è soprattutto una differenza decisiva fra i due fenomeni.

Il contagio esige dei sacrifici a breve termine, temporanei e limitati nel tempo e nello spazio: è un’interruzione delle nostre abitudini, una sciagurata parentesi in cui il dopo sarà uguale al prima (e infatti le intenzioni di redenzione – meno consumi, meno viaggi, meno inquinamento, saremo più virtuosi e collaborativi –, passata la paura, sono subito evaporate e oggi, proprio perché non abbiamo imparato nulla, siamo peggio di prima).

Il degrado ambientale è una faccenda ben più complicata perché non è un evento temporaneo e di corta durata che prima o poi passerà: per combatterlo dobbiamo rivedere per sempre i nostri stili di vita, i nostri comportamenti, il nostro modello economico: dobbiamo abbandonare l’idea che il benessere sociale sia associato al consumismo sfrenato e all’incremento del Pil, dobbiamo renderci conto che il dopo non potrà più essere come il prima.

La questione di fondo – ci informa il sociologo ambientale – è che le vittime della distruzione del pianeta e i distruttori sono le stesse persone: siamo noi. Siamo noi che dobbiamo sconfiggere noi stessi. È tremendamente difficile.

E allora per combattere l’inerzia e l’inconsapevolezza sociale di un disastro annunciato, dobbiamo forse ricorrere al pugno duro e inflessibile dello Stato, al Leviatano prospettato da Hobbes che tutto dirige e tutto comanda? Dobbiamo propugnare lo Stato "etico ecologico" che limiti con rigida determinazione la libertà di dissipare per salvare il pianeta? Vogliamo lo Stato educatore che detta ciò che è bene o ciò che è male, e i margini di tolleranza sono esclusi? Ovviamente no: inutile ribadire che lo Stato liberale contempla dei cittadini e non dei sudditi.

Forse la sola via praticabile è quella indicata nel 1994 da uno dei leader storici dei verdi europei, Alexander Langer: suggeriva di bandire il catastrofismo che induce all’inerzia e alla resa passiva e di promuovere cambiamenti graduali, piccoli traguardi intermedi che stimolino la speranza di riuscire nell’impresa, poco per volta: "La conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile" era il titolo di una sua conferenza. Concordo. Dobbiamo rendere socialmente auspicabile il cambiamento: non è agevole ma è la sola via praticabile.

E la politica? Forse a furia di alluvioni e siccità che si moltiplicano ovunque anche la politica – sostiene qualcuno – ha maturato una nuova consapevolezza e governi e partiti sono indotti a inserire il "climate change" nell’agenda. Ci credo poco: la consapevolezza diventa propaganda quando non è seguita dall’azione e io l’azione determinata non la vedo, ai proclami perentori segue il farfuglìo di chi fatica a concepire un mondo diverso da quello in cui vive. A dire il vero questa presunta consapevolezza la ritroviamo più a sinistra che a destra, dove sono ancora parecchi a irridere i "gretini" e quelli dell’"ambientalismo fuori luogo" (ve li ricordate i politici nostrani che consigliavano ai "giovinastri scansafatiche" di andare a lavorare invece di perdere il tempo a protestare? Ve li ricordate?). Sono ancora lì, e il sospetto è che per loro valga la norma del Gattopardo: "Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi". Quindi si parla del cambiamento climatico, ma poi si prosegue come prima e le discussioni bernesi sulle iniziative climatiche ce lo confermano. La politica continua a essere fortemente arretrata, condizionata e contaminata dalla logica neoliberista che ha generato ingiustizie e diseguaglianze. Lo sappiamo, ma pure seguitiamo a votarli, gli esponenti di questa dottrina. E comunque, quando diamo addosso ai nostri rappresentanti, non dimentichiamo che siamo noi, elettori, che li eleggiamo e spesse volte votiamo contro i nostri interessi e ci diamo una zappa sui piedi. Aveva ragione Bertolt Brecht: "Il peggiore analfabeta è l’analfabeta politico…".

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