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Divario salariale, un fardello storico del Ticino

L’economia cresce ma non permette una dinamica dei redditi analoga a quella nazionale. Il caso del contributo al Pil dei lavoratori frontalieri

Ai ticinesi mancano più di mille franchi al mese
(Ti-Press)

Mille e più franchi dividono il salario mediano ticinese da quello del resto della Svizzera intesa come insieme. Se il raffronto lo si fa su singole regioni, la differenza aumenta ancora di più: rispetto a Zurigo, per esempio, il reddito teorico mancante nelle tasche dei lavoratori ticinesi, del settore pubblico e privato, è di oltre 1’500 franchi. Un abisso salariale storico difficilmente colmabile con la sola rivendicazione sindacale. È la diversa struttura dell’economia, tra il Nord e il Sud delle Alpi, a fare la differenza. Zurigo e Basilea sono da sempre i motori economici svizzeri grazie anche alla forte presenza di settori ad alto valore aggiunto spinti da centri accademici e di ricerca di livello internazionale. Cercare di replicare le stesse condizioni quadro in Ticino è auspicabile, ma inverosimile anche nel lungo periodo. Spesso si dimentica che siamo un Cantone di soli 350mila abitanti e nonostante ciò il Ticino è in grado di contribuire al Pil nazionale per oltre 31 miliardi di franchi ogni anno su un totale di più di 726 miliardi (dati 2019). Si tratta di oltre il 4% dell’intera produzione nazionale di beni e servizi. Un dato non da poco. Pure il Pil pro capite ticinese, sempre per il 2019, è di tutto rispetto: più di 87mila franchi l’anno per abitante, superiore a quello medio nazionale. Insomma, cifre che non dipingono un’economia a rimorchio ma una dinamica economica vitale. Eppure il dato sui salari è controcorrente. I redditi ticinesi stagnano o nella migliore delle ipotesi progrediscono a passo di lumaca rispetto al resto della Svizzera.

Una spiegazione tecnica è data dal fatto che quasi un terzo della manodopera occupata in Ticino è frontaliera. Lavora in Svizzera, ma spende prevalentemente fuori confine. In pratica contribuisce in modo importante alla produzione di beni e servizi ticinesi, ma i relativi redditi non vanno a beneficio dell’economia locale. Questo gonfia la statistica sul Pil pro capite e crea l’illusione di una ricchezza che in realtà non c’è. Il tema è utilizzato dalla politica per rivendicare da Berna più flussi finanziari derivanti dalla perequazione intercantonale: riceviamo meno di quanto dovremmo proprio perché il Pil cantonale è per certi versi dopato. Siamo alle solite, si direbbe: "La colpa è dei frontalieri che pur producendo Pil per noi, si accontentano di salari più bassi generando una concorrenza al ribasso, spingendo sotto la linea mediana svizzera i redditi di tutti noi". La soluzione populista che va per la maggiore? Abbassiamo il fabbisogno di manodopera non residente e il problema è presto risolto. E invece non è così facile come si crede. In economia uno più uno non fa due.

Se il mercato del lavoro ticinese attuale è in grado di assorbire oltre 70mila lavoratori frontalieri, vuol dire che l’economia locale è più grande di quanto sarebbe naturalmente. E torniamo al dato iniziale di un cantone di soli 350mila abitanti che per continuare a far progredire la sua economia – che si vuole diversificata e dinamica – ha bisogno dell’apporto di teste e braccia dall’estero. E questo in tutti i settori. Certo, condizioni di lavoro eque e salari dignitosi – che non costringono a chiedere aiuti sociali – aiuterebbero a evitare una guerra tra poveri. Il salario minimo legale appena entrato in vigore è uno strumento, ancorché perfettibile, per mettere un limite al ribasso – cosa che ad alcuni imprenditori corsari fa comodo – e invertire la tendenza. È un primo passo.

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