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Filorussi e antiamericani, tra lapidi e minestroni

Estrema destra ed estrema sinistra appaiono unite – per motivi diversi – in una campagna che porta acqua al mulino di Putin

(Facebook/Udc)
12 marzo 2022
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Nei giorni scorsi, sulle pagine social di molti politici e gruppi Udc è apparsa una lapide. Detta così, uno potrebbe pensare che il riferimento fosse alla guerra in Ucraina e alle migliaia di morti che sta mietendo: un pegno – nominale e superfluo come molti gesti virtuali, ma se non altro tempestivo – a quest’Europa insanguinata. Ma sarebbe chiedere troppo al partito che più di tutti ha difeso in Svizzera le ragioni di Putin, definendolo ancora pochi giorni fa tramite la Weltwoche "l’incompreso", colui che "smaschera il vuoto moralismo dei suoi oppositori" e "la decadenza dell’Occidente". Lo stesso partito che alle prime bombe, non potendo impugnare di fronte a macerie così vicine il consueto "aiutiamoli a casa loro", ha chiesto di aiutarli, d’accordo, però poco lontano da lì, fornendo "aiuto sul posto nei Paesi d’accoglienza invece di portare i profughi di guerra in Svizzera con programmi di reinsediamento" (intanto i loro cuginetti leghisti, unendosi in contropiede a questo surreale sciacallaggio, chiedevano allo stesso governo di cacciare i "troppi migranti economici" onde "fare spazio per i veri profughi").

Non stupisce insomma che quella lapide non avesse nulla a che vedere con i caduti di un’invasione voluta da un regime che all’Udc non è mai dispiaciuto più di tanto, con buona pace della corsa a distanziarsene all’ultimo secondo. La pietra tombale è semmai dedicata con innata sensibilità ed empatia alla neutralità svizzera, uccisa a quanto pare dalla decisione di far parte del Consiglio di sicurezza dell’Onu, un gremio talmente ecumenico ed eterogeneo che più ‘neutrale’ di così non si può, foss’anche solo per manifesta pachidermia. Ma la neutralità, secondo l’estrema destra, dev’essere qualcosa di più. Dev’essere "tacere nelle quattro lingue nazionali", secondo la fortunata espressione di Micheline Calmy-Rey, e infatti l’Udc si è opposta perfino alla scelta di allinearsi alle sanzioni europee contro la Russia. Per come la vedono loro, la neutralità dev’essere declinata in un asfittico isolazionismo armato. Ne è conferma la richiesta – avanzata sfruttando il clamore della guerra e dimenticando il consueto austerismo da ‘meno Stato’ – di aumentare spese e organici dell’esercito: ventimila balestre e coltellini in più per affrontare come si deve le minacce di un mondo multipolare e termonucleare. È il sovranismo, bellezza: l’illusione di essere padroni a casa propria in un globo sempre più interconnesso, di poter chiamare neutralità il parassitismo opportunista di chi vorrebbe fare affari con chiunque, anche coi peggiori autocrati, senza pagare il conto.

E poi c’è l’estrema sinistra. Sebbene sia ingiusto fare di tutta l’erba un fascio (littorio), va pur detto che è ripugnante la propaganda rossobruna propalata dagli amici ticinesi del Cremlino, quei comunisti secondo i quali Mosca starebbe conducendo "un’operazione umanitaria a tutti gli effetti". Per carità, magari credono sinceramente alle balle che raccontano – il "golpe" dell’Euromaidan, il "genocidio" in Donbass, i "nazisti" al potere a Kiev –, ma balle restano, come ha ben illustrato su queste pagine il collega Marco Narzisi (si veda laRegione dello scorso otto marzo). Anche se sono pochi, tocca notare che picchiano con instancabile pertinacia gli stessi tasti scordati, suonano esattamente le stesse note in diesis di quella disinformatia russofila che ha improvvisamente convertito la campagna No Vax e No Pass – altri temi coi quali pure l’Udc ha flirtato parecchio – in propaganda pro-Putin, al solo scopo di avvelenare i pozzi e destabilizzare qualsiasi tentativo di dibattito informato.

A sinistra, quella propaganda trova orecchie sensibili anche presso chi non si beve tutto intero il cocktail dei comunisti nostrani (un quarto di Lenin frullato, due olivette per Marx e la caduta tendenziale del saggio di profitto, una scorza mal digerita di velleità staliniste; agitare bene e servire freddo, come certe guerre d’antan). Questo non perché permangano grandi nostalgie filosovietiche – che d’altronde hanno poco a che vedere col Cremlino di Putin –, ma perché molte persone di sinistra restano schiave di uno schema mentale secondo il quale tutto, dalle guerre alle domeniche piovose, è sempre e comunque colpa degli "Amerikani". Caveat: non starò certo qui a giustificare la guerra in Vietnam, la Dottrina Monroe e l’imperialismo in Sudamerica – "povero Messico, così lontano da Dio e così vicino agli Stati Uniti", sospirava il pur dittatoriale Porfirio Diaz –, e neppure lo scellerato intervento in Iraq. Ma mi stupisce vedere chi ancora giocherella con l’impolverato bric-à-brac maoista e castrista per fare il ‘non allineato’ a tutti i costi, "né col Cremlino né con la Nato", e riesce perfino a paragonare le bombe di Putin a quelle su Belgrado del 1999, che invece un genocidio lo fermarono eccome.

Quello antiamericano è un ‘frame’, una cornice interpretativa che non c’entra pressoché nulla col conflitto in Ucraina. Intanto, perché è di un cinismo parossistico spiegare l’aggressione col presunto "accerchiamento" della Russia da parte della Nato: chiunque abbia avuto libertà di scelta si è unito volontariamente all’alleanza atlantica, memore com’è dello stivale sovietico, e se Mosca spaventa così tanto gli ex Stati vassalli, beh, chi è causa del suo mal pianga sé stesso; peraltro, riesce difficile immaginare un’invasione come quella alla quale stiamo assistendo in un Paese che fosse già protetto dallo scudo nucleare degli americani brutti e cattivi, anche se mai dire mai. Soprattutto, però, la cornice è tutta storta perché Putin non teme tanto l’America, poliziotto globale sempre più svogliato e ingobbito su sé stesso: teme piuttosto l’Europa, quella realtà politica ed economica per la quale i cittadini dell’Est hanno sempre votato coi piedi, al punto che ci volle un muro (anche quello "antifascista", secondo la retorica comunista) a far da laccio emostatico per evitare il dissanguamento dei regimi realsocialisti. È quell’idea lì – quella di un continente unito sotto l’egida della democrazia e della libertà politica ed economica, unite magari alla rete di sicurezza della soziale Marktwirtschaft – che da oltre mezzo secolo fa innamorare i cittadini dell’Est: un mito che come tale va incontro a inevitabili delusioni, come paiono mostrare le recidive nazionaliste in Paesi come l’Ungheria e la stessa Polonia, oggi in prima linea nell’accoglienza dei profughi (e nei memorabili calci alle terga di Salvini). Un mito che comunque anche la sinistra dovrebbe difendere, coltivare e rendere il più possibile reale, se davvero vuole emanciparsi dall’ombra lunga di un emaciato "Zio Sam", finora disprezzato garante della sicurezza continentale. Però, certo, è più facile rifugiarsi in posticce equivalenze morali tra Cremlino e Casa Bianca. Col rischio tuttavia di trovarsi sul capo un’altra lapide, messa lì da quei progressisti ai quali ormai danno uggia certi rancidi minestroni.

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