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L’Afghanistan e il dilemma delle sanzioni

Il regime di Kabul ha mostrato da tempo il suo vero volto. L’embargo internazionale rischia però di colpire solo la popolazione inerme

Una situazione che sta diventando sempre più drammatica
(Keystone)

Un nodo gordiano, in cui entrano in gioco questioni etiche, diplomatiche, i diritti umani e il diritto alla vita tout court. È lì in bella vista davanti ai nostri occhi: come trattare il regime di Kabul? Se ancora sussistesse il seppur minimo dubbio sulla sua natura, ci hanno pensato gli stessi seminaristi coranici a fugarlo mettendo in piedi un governo monocolore pashtun (l’etnia a cui appartengono e che identificano come una sorta di ‘razza superiore’) con tanto di ‘wanted’ per terrorismo, facendo scomparire centinaia di oppositori e decretando di nuovo che la condizione delle donne deve situarsi in una zona limitrofa tra la tradizione più retrograda e la schiavitù.

Parassitaria e totalmente dipendente dagli aiuti internazionali, l’economia afghana è collassata in pochi giorni. L’embargo internazionale è solo scalfito da qualche apertura (fondi della Banca mondiale per il Programma alimentare mondiale, risoluzione Onu per sbloccare gli aiuti d’urgenza). Come evitare un dramma su vasta scala (la denutrizione potrebbe colpire oltre la metà della popolazione) senza al tempo stesso sostenere i talebani? La questione delle sanzioni non ha storicamente mai trovato risposte univoche. Il ‘bloqueo’ con il quale gli americani hanno cercato di strangolare Cuba sin dalle espropriazioni delle aziende straniere decise da Che Guevara nel 1960, malgrado alcune concessioni sul fronte dei medicinali e dei prodotti alimentari, si è rilevato uno strumento perverso che ha colpito ben più la popolazione che il regime. All’opposto troviamo l’esempio sudafricano: l’embargo deciso negli anni 80 dall’Onu (ripetutamente violato nel campo delle armi, del nucleare, dell’oro dalle lobby elvetiche in costante luna di miele con i leader bianchi boeri) era stato chiesto dall’African National Congress di Mandela e ha consentito l’abbattimento del regime dell’Apartheid, isolato su scala mondiale, in particolare dopo il voto del Congresso statunitense.

Se oggi i nordcoreani non sorridono non è unicamente a causa del recente divieto di ridere o sogghignare per undici giorni imposto da Kim Jong-un: le sanzioni che mirano a contrastare il massiccio riarmo del Paese, colpiscono indirettamente e pesantemente tutta la popolazione. Alla vexata quaestio sull’Afghanistan un editorialista del New York Times risponde senza andarci per le lunghe: i talebani vanno trattati come dei paria. Nessun aiuto o riconoscimento finché non rispetteranno i diritti umani. I diritti umani però li disprezzano, si sono già rimangiati tutte le promesse (governo inclusivo, parità dei diritti uomo-donna). E dunque? In alcune località la situazione è estrema, villaggi interi che fanno la fame mentre si moltiplicano notizie di bimbe vendute da famiglie sprofondate nella povertà (tradizionalmente la dote è portata dalla famiglia dello sposo, le future spose costituiscono di riflesso un capitale ragguardevole). Possiamo invocare il rispetto dei diritti umani col rischio di contribuire a un’ulteriore tragedia? No, risponde un editoriale del quotidiano Le Monde: quello dei talebani è un ignobile regime, ma non vi è scelta. Il dubbio però rimane perché un cataclisma economico farebbe vacillare il governo. Eppure vi è almeno una certezza: mai come ora gli aiuti d’urgenza attraverso le Ong appaiono vitali. Vanno riavviati senza esitazione alcuna. Al più presto.

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