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I Talebani e Kabul cento giorni (o anni) dopo

Quest’estate i ‘seminaristi coranici’ tornavano al potere con l’uscita degli Usa dal Paese. Il bilancio è già tragico

(Keystone)

Era prevedibile. Oggi l’indignazione lascia il posto all’oblio. Quella realtà torna a essere tanto lontana. Sono trascorsi 4 mesi da quando i cosiddetti “seminaristi coranici” hanno riconquistato l’Afghanistan. Più di 100 giorni, forse in realtà più di 100 anni.

Nel 1919, all’indipendenza, il re Amanullah diede al Paese una costituzione, aprì le scuole alle ragazze, abolì l’obbligo del velo. Una rivoluzione affossata da una storia impietosa, con tonfi e rinascite: all’età aurea, il decennio apertosi nel 1964, seguì la crisi infinita, 42 anni di una guerra iniziata con l’invasione sovietica del 1979, preceduta da una serie di sanguinosi colpi di Stato che portarono al potere in meno di due anni i comunisti Taraki, Amin e Karmal. Fu il primo tentativo di esportare un modello sociale e ideologico: socialismo e laicità, a suo modo una forma di democrazia. L’inenarrabile violenza (nella sola prigione di Pol-e-Tcharki il regime di Taraki fece fucilare oltre 27mila prigionieri, islamisti, mistici sufi, comunisti moderati del partito Partcham) contabilizza nel decennio sovietico forse 2 milioni di morti. La guerra civile ’92-96 tra i mujaheddin precedentemente sostenuti in chiave antisovietica da americani, sauditi e cinesi, riduce città e villaggi a un cumulo di macerie. Poi arrivano loro, i talebani, braccio armato del Pakistan, e portano al potere il terrore oscurantista fino a quando americani e loro alleati dell’Alleanza del Nord non li cacciano all’indomani dell’11 settembre 2001.

Il ventennio americano non pone fine al conflitto che rimane sottotraccia tra un agguato e un bombardamento, forse 200mila morti di cui in buona parte poliziotti e soldati afghani. L’intervento di Washington è andato oltre gli obiettivi iniziali (la cattura dei terroristi di al Qaida), come ricorda il celebre giornalista Massoud Senjar ormai costretto all’esilio: scolarizzazione delle ragazze (dallo 0 all’80%), libertà di stampa (con un numero enorme di giornalisti uccisi dai talebani, ma anche dalle mafie locali), costituzione, modernizzazione, crescita professionale. Così in sintesi la democrazia esportata da una potenza che in realtà non vedeva l’ora di andarsene.

Oggi al potere ritroviamo gli stessi nomi dei tagliagole del 1996. Di certo però non assisteremo a un remake puro e semplice: i vecchi-nuovi padroni devono fare i conti con una realtà sensibilmente mutata: l’emancipazione femminile, i telefoni cellulari, l’urbanizzazione, il baratro economico in cui hanno precipitato il Paese. Oggi indossano una maschera presentabile perché del famigerato Occidente hanno bisogno come l’aria. Che gli effetti speciali della propaganda (con l’inedita compiacenza nei confronti dei giornalisti stranieri) non traggano però in inganno: dietro le quinte uccidono e rapiscono (Human Rights Watch), è tornata la ferrea censura, mentre le scuole sono quasi ovunque off-limits per le ragazze oltre il settimo anno di scolarizzazione.

Che fare? Aiuti diretti tramite conoscenti, scuole in remoto in particolare per le ragazze sulla discreta piattaforma Telegram (una, la Herat Online School in Ticino è gestita da Jamileh Amini, attivista afghana), pressione politica internazionale sono gli strumenti con i quali possiamo ancora, in questo periodo di buoni propositi, tentare di sottrarre il Paese al dramma di una non vita.

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