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Gli italiani e la rivoluzione dal divano

Indolenti e lamentosi, intrappolati in un circolo vizioso che attira a sé ogni partito che cerca di andare controcorrente, appiattendo ogni proposta

Finti cartelloni elettorali per le strade di Roma (Keystone)
5 ottobre 2021
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“Chi siamo noi?” “I calabresi!” “E cosa vogliamo?” “Cambiare tutto!” “E come lo facciamo?” “Non andando a votare! Votando sempre gli stessi! Lamentandoci!”. Così la pagina satirica calabrese ‘Lo Statale Jonico’ ha riassunto le elezioni regionali, dimostrando – se mai ce ne fosse bisogno – che in un Paese in cui la politica si è svuotata di ogni significato, solo lo sberleffo può venirti in soccorso per capirci qualcosa. Pigri, lamentosi, indolenti, abitudinari, spaventati dal cambiamento che chiedono a gran voce a chi potrebbero cambiare votando, questa è la fotografia non dei soli calabresi, ma degli italiani, quest’anno campioni d’Europa di quasi tutto e da sempre campioni mondiali di rivoluzioni dal divano.

L’affluenza ha superato di poco il cinquanta per cento e in quattro dei cinque comuni più importanti nemmeno la metà degli aventi diritto al voto si è recata alle urne. Sono numeri che hanno molto a che fare con un senso di impotenza autoinflitto in un perfetto esempio di circolo vizioso dove tutti sono colpevoli: un meccanismo che va avanti da solo come quegli esperimenti sul moto perpetuo in cui qualcuno dà una botta a una pallina e quella non si ferma più.

Dalla Lega, ai Verdi a Berlusconi: tutti quelli arrivati per scardinare il sistema ne sono stati assorbiti a tal punto da diventarne parte. Il gioco si era improvvisamente interrotto con l’arrivo sulla scena politica del Movimento 5 Stelle: la loro natura controcorrente ha agitato ma mai rotto quel fluire lento, inesorabile, gattopardesco composto da tre movimenti ormai fusi in uno solo: la campagna elettorale, il consenso dell’urna, il risultato politico. La prima è diventata permanente, il secondo superfluo (surrogato dal finto potere dei social), il terzo una scocciatura, un fastidio da incastrare tra una sagra della salsiccia o una cena gourmet (a seconda dei gusti) e una comparsata in tv (che invece piace a tutti).


Un seggio di Napoli durante il weekend elettorale (Keystone)

Se in Italia non si va più a votare forse è ora di smettere di dare la colpa alla gente e iniziare a darla a chi vuole essere votato. Un po’ come quando ogni tanto si ritira fuori la crisi del pubblico nei cinema e negli stadi, cercando colpe fuori e mai dentro: magari sono brutti i film, pessime le squadre e scomode le poltrone. Ancora è da scrivere un giallo in cui il detective chiede alla vittima agonizzante se è lui l’assassino.

Così a Milano Beppe Sala vince per inerzia in una città che sfrutta l’onda lunga della sinistra alla Draghi prima di Draghi, quella che baratta l’eskimo per un doppiopetto pur di non ritrovarsi addosso una camicia nera. Bologna e Napoli vanno a sinistra, e Torino pure, ma non troppo, non del tutto. La Calabria sceglie la destra, mentre Roma resta il vero campo di battaglia (ancora aperto, visto che si andrà al ballottaggio) tra 4 proposte che non ne facevano una: l’inconsistenza di Virginia Raggi, il cerchiobottismo furbacchione di Carlo Calenda, l’eterno ritorno di una sinistra che non solo non somiglia più a se stessa, ma è ormai così informe da non somigliare più a niente, e una destra con un candidato fiacco che prende vita solo quando Giorgia Meloni, in versione ventriloqua, gli presta la voce. Dicono tutti la stessa cosa: “votatemi”, solo che non si capisce più perché. E i risultati si vedono. Gli elettori molto meno.

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