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Olimpia e il prezzo della felicità

Dopo decenni in cui ci si doveva fare largo a gomitate per aggiudicarsi i Giochi, il ricordo dei deficit finanziari pare raffreddare gli entusiasmi

(Keystone)
24 luglio 2021
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Montréal 1976, Atene 2004, Rio 2016. Tre edizioni delle Olimpiadi, tre disastri economici. I Giochi del ’76 contribuirono tanto a mettere la città canadese sulla mappa del mondo quanto a devastarne i conti. I costi di quell’Olimpiade lievitarono fino a lasciare un buco da 1 miliardo e mezzo di dollari che, a distanza di 40 anni, non era ancora stato coperto.

Gli economisti tendono a far coincidere l’inizio della fine della Grecia con il 2004, anno del costoso ritorno della fiamma a Olimpia. Rio dopo la doppietta Mondiale-Olimpiade del 2014-2016 si lecca ancora le ferite. E dire che lì le polemiche erano già calde ancora prima che il braciere si accendesse. Il mondo festeggiava lo sport e sé stesso in un Paese che da festeggiare non aveva nulla.

Ora le Olimpiadi non le vuole più nessuno. Dopo decenni, nel secolo scorso, in cui ci si doveva fare largo a gomitate, le candidate per i Giochi del 2024 erano solo due: Parigi e Los Angeles. Alla fine, il Cio ha deciso di dare quelle del 2024 ai francesi e quelle del 2028 agli americani, così per un po’ non se ne parla più. Il 2032? Pare ancora lontano eppure tre giorni fa il Cio le ha assegnate a Brisbane, in Australia, unica in lizza.

Nel ’900 ospitare un’Olimpiade era un modo per esibire i muscoli e avere i riflettori puntati su di sé. I Giochi sono sempre andati a braccetto con gli interessi economici e geopolitici del momento. Berlino ’36 in pieno delirio nazista, Londra ’48 a celebrare i vincitori del conflitto mondiale, Roma ’60 nell’Italia del boom, Mosca 1980 seguita e Los Angeles 1984 con tanto di boicottaggi incrociati, per scontentare tutti e nessuno; la rampante Corea di Seul ’88 e la grandeur cinese di Pechino 2008. “Follow the Olympics” è persino più infallibile di “follow the money”. Trovavi le Olimpiadi e trovavi da che parte andava il mondo.

In parte svuotate della loro mistica geopolitica del mondo diviso in blocchi, nelle ultime edizioni erano diventate solo un salasso, un modo festoso e rapidissimo per entrare in una crisi economica senza fondo. Entrò così in gioco la variante felicità con studi socioeconomici che sostenevano come i soldi spesi non potevano mai essere recuperati, ma l’impatto sugli abitanti del Paese ospitante sarebbe stato così forte da creare comunque un circolo virtuoso. Un popolo più felice spende di più, commette meno crimini, è più gentile con gli altri. L’equazione si è rivelata tale solo per Barcellona (1992) e Londra (2012). Ma la felicità, si sa, è effimera, mentre un conto in rosso, talvolta, è per sempre. Per informazioni chiedere a Montréal.

Il Giappone ha provato a regalarsi un po’ di gioia nel momento sbagliato: quando sei una potenza mondiale ma sei 56esimo nella classifica della felicità globale dietro a Paesi come Kazakistan, Nicaragua e Guatemala è giusto provarle tutte, comprese strade rivelatesi fallimentari altrove. Atene, Rio, Montréal e le altre città strizzate dall’Olimpiade hanno avuto almeno il loro mese di gloria, i loro applausi scroscianti, gli spalti pieni.

Tokyo, invece, è già quel che di solito accadeva dopo, quando la festa era finita, ma almeno c’era stata: il vuoto, il silenzio, i conti che non tornano. E del mito greco restano solo i nomi delle varianti che preoccupano atleti e organizzatori: Beta, Delta, Omega.

La scommessa sulla felicità oggi non ha pagato. “Domani soffierà il vento di domani”, dice un vecchio proverbio giapponese.

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