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Ma la finanza non impara dagli errori del passato

Il caso Archegos, costato una decina di miliardi di capitale a Credit Suisse, è l’ultimo di una lunga serie di disastri annunciati

(Keystone)

Si fa presto a dire “è il mercato, bellezza!”, quel luogo che tutto apprende, digerisce e sputa fuori creando ordine dal disordine e dando un prezzo corretto a qualunque cosa, che si tratti di caffè o di un titolo finanziario. Il caso in cui è incappata Credit Suisse è da manuale del classico cerino in mano: l’ultimo di una lunga catena di attori al quale tocca pagare per tutti. Gli investimenti azzardati nell’hedge fund Archegos e nella fallita società finanziaria britannica Greensill capital sono costati cari: una fattura da 4,4 miliardi franchi. A tanto, infatti, ammontano le correzioni del portafoglio proprio della seconda banca svizzera, più una perdita trimestrale da 900 milioni di franchi. A questo si deve aggiungere la svalutazione della capitalizzazione di Borsa per altri 6 miliardi in poco più di dieci giorni. Diciamo che l’anno non è iniziato nel migliore dei modi per gli azionisti di Credit Suisse e a poco è servita la cacciata con disdoro del numero uno dell’investment banking Brian Chin e della responsabile del fondamentale settore ‘Risk and compliance’ Lara Warner per cercare di porre rimedio. Il danno – non solo finanziario, ma soprattutto reputazionale – è ormai fatto e bisognerà correre parecchio per recuperare credibilità e redditività. Per quanto riguarda quest’ultima non è difficile immaginare sulle spalle di chi verrà caricata. Non dimentichiamo mai, inoltre, che gli azionisti non sono entità astratte lontane dalla vita di noi comuni mortali: tra di essi ci sono anche tanti fondi pensione, proprio quelli ai quali affidiamo parte del nostro salario tutti i mesi per la serenità della nostra vecchiaia. Non sono mai soldi del Monopoli, quelli ‘bruciati’ dalla finanza.  

Ma come è stato possibile che una delle principali banche svizzere, e quindi del mondo, abbia potuto incrociare il destino di un fondo altamente speculativo (Archegos capital management, questo il nome completo) poco noto ai più e fondato da Bill Hwang, un americano di origine coreana, già condannato per insider trading e per anni sulla lista nera di molte banche d’investimento? Nel 2014, per dire, le autorità finanziarie di Hong Kong gli vietarono di operare nella locale Borsa. Nel 2012 la Sec, il gendarme del mercato finanziario statunitense, lo multò con quaranta milioni di dollari per insider trading. Insomma, il personaggio nel ristretto club globale della finanza speculativa era noto. Ciò non è bastato, però, a prendere le dovute contromisure, convinti di poterlo gestire e soprattutto di poter beneficiare delle sue elevate performance.

Siamo sempre lì, alla ricerca del profitto a ogni costo senza badare ai rischi che gli strumenti finanziari alternativi come i derivati e affini incorporano. Eppure le esperienze passate non sono mancate, a iniziare dalla vicenda del fondo Long term capital management alla fine degli anni ‘90. Fu necessario l’intervento della Federal Reserve per evitare che le astruse strategie d’investimento di quest'ultimo, basate su modelli matematici errati e replicate in modo pedissequo anche da altri fondi, causassero danni maggiori all’intero sistema. A inizio millennio arrivò lo scoppio della bolla della New economy e nel 2007-2008 la crisi finanziaria scatenata dai crediti subprime. Anche in questo episodio spartiacque della finanza internazionale non mancarono effetti negativi per le due principali banche svizzere. Chi si ricorda che Ubs esiste ancora grazie al salvataggio della Confederazione?

Ma l’appetito per il rischio non si è mai sopito, alimentato anche da politiche monetarie espansive ultradecennali delle banche centrali e tassi d’interesse nulli o addirittura negativi. L’effetto leva – l’investimento di capitali che non si hanno per avere più volumi e quindi più guadagni – fa il resto. E chi prestava i soldi che Archegos non aveva e che ha bruciato sul mercato? Giusto, tra gli altri anche Credit Suisse, che ora sta cercando di venire a capo del ginepraio in cui si è infilata.

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