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Il Molino, i due calvi e la tentazione del manganello

Non passano sei mesi senza che si torni a parlare dello sgombero del Molino. Ora ci si mette pure la campagna elettorale

(Altervista)
13 marzo 2021
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Un cartello giallo con una scritta nera (ma di sicuro non è De André): “È vietato giocare a palla, andare in bicicletta, fare schiamazzi”. Sotto, il pennarello di mano ignota: “Allora mi drogo”. È un’immagine che gira da anni su internet, e torna in mente ogni volta che a Lugano si parla di sgombero del Molino. Cioè più o meno ogni sei mesi, ma soprattutto in campagna elettorale: i pistolotti legge-e-ordine portano voti, certi candidati hanno un gran bisogno di teste mozzate per compiacere le proprie Salomè. Se poi alcuni esagitati hanno la bella idea di andare a far casino in stazione, l’assist è a porta vuota.

Mi torna in mente, quel cartello, perché se ne potrebbe fare il motto d’una città sonnolenta, dove molti portano sì nuove idee e iniziative, eppure troppo spesso prevale la linea di chi al massimo va al Parco Ciani a parlare coi cigni. Lungo il Cassarate, invece, il Molino offre un’alternativa a molti che altrimenti non saprebbero dove sbattere la testa.

Sia chiaro: non si vogliono condonare le violenze di una frangia di molinari, gli stessi che hanno preso una nostra giornalista a testate sul naso. E neppure sdoganare i furori ideologici e l‘imporsi dei fanatici sugli autogestiti più aperti al dialogo, col rischio di allontanare molti benintenzionati. Ma non si possono neppure declassare tutti a “brozzoni”, come se decenni di musica, teatro, dibattiti, laboratori, accoglienza costituissero la più pidocchiosa delle storie, peraltro in una città dove si direbbe che ogni altra espressione artistica o culturale debba prima essere approvata da un apposito Politburo (pur con risultati a volte ottimi, come certi festival che ridanno linfa a strade e piazze).

Riesce poi difficile credere che per il Molino non ci sia spazio, all’ex Macello o altrove: un centro sociale c’è in tutte le città degne di questo nome. Certo, se gli stessi molinari si degnassero di confrontarsi col Municipio in modo più coeso e coerente sarebbe tutto più facile. Però sappiamo benissimo che la scelta non tocca a loro, e che comunque, come ha ricordato su ‘naufraghi.ch’ Franco Cavani citando Borges, stiamo assistendo alla “guerra tra due calvi per il possesso di un pettine”.

Il tutto in un momento nel quale la città e i suoi aspiranti politici dovrebbero preoccuparsi di problemi molto più gravi, da Agno a Cornaredo. A pensar male, viene da credere che il ‘caso’ Molino non sia nient’altro che un diversivo, per farsi vedere evitando come al solito di affrontare le rogne sempre più imbarazzanti della città: lo spopolamento, la vecchia palla al piede dello squallore edilizio e l’avanzata di (sotto)sviluppo urbano alla brasiliana, con sacche di disagio a due passi dalle Aston Martin e dai barboncini con la permanente. Problemi per i quali vale il caustico giudizio dell’ex sindaco/re Giorgio Giudici: “Oggi a Lugano sembra prioritario dimostrare il fare. Aggiungerei, il fare niente”.

In questa lacustre Rio de Janeiro il Molino rompe le palle, d’accordo, ma spezza anche un soffocante corsetto. E davvero riesce difficile pensare che una città possa definirsi tale senza ospitare la diversità e l’antagonismo. Per questo chi invoca lo sgombero mostra una violenza politica che dovrebbe destare più d'un dubbio, anche tra chi dei centri sociali se ne frega. Perché la legge che si fa manganello rischia di piombare sulla testa di tutti, prima o poi.


(Barzellette)

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