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Borrell e la sindrome del pugile suonato

Forse troppo anziano, di sicuro portavoce unico di interessi diversi. Dopo il flop a Mosca, c'è chi chiede la testa dell'alto rappresentante Ue, non a torto

(Keystone)
11 febbraio 2021
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“Va bene dialogare, ma se uno gioca a hockey su ghiaccio, l’altro non può mettersi a ballare”, parole di Riho Terras, eurodeputato estone che ha chiesto, per primo, le dimissioni dell’Alto rappresentante Ue per gli affari Esteri Josep Borrell, raro esemplare di elefante europeo a spasso per la cristalleria del Cremlino.

I media europei hanno fatto a gara nel definire al ribasso la visita di Borrell a Mosca: si va da “delusione” e “pasticcio” fino a “umiliazione” e “disastro”. A monte ci sono tre errori, uno di Borrell, gli altri due dell’Unione europea. Il primo avrebbe dovuto mettere in valigia una mazza da hockey insieme al tutù, la seconda poteva scegliersi un portavoce più al passo coi tempi. Senza contare che l’Unione continua a essere – de facto – molto più economica che politica, delegittimandosi già in partenza in ogni consesso diplomatico.

A condannare il golpe in Birmania sono capaci tutti, ma si va in ordine sparso – a seconda degli interessi nazionali – sulla questione Kosovo, sulla Turchia e sull’eterna disfida Israele-Palestina: figurarsi quando si tratta di un vicino ingombrante come la Russia. Borrell deve mettere insieme chi – come la Germania – vuole un approccio soft per questioni economiche come il gasdotto Nord Stream 2 e chi – come i Paesi baltici – teme l’aggressività della Russia, con cui confinano e di cui hanno pessimi ricordi. Non è un caso che il primo europarlamentare a criticare Borrell sia stato un estone, per di più ex militare. E non serve aver passato anni in un ufficio di Bruxelles per capire che il dossier Putin ha un impatto diverso se letto a Tallinn o a Lisbona.

Borrell è andato con l’idea di un passo a due, e davanti al muro di ghiaccio del ministro degli Esteri russo Lavrov non ha cambiato atteggiamento di una virgola. Voleva promuovere una collaborazione ad ogni costo e si è sentito sbattere la porta in faccia, voleva visitare in prigione Navalny e non gli è stato concesso, voleva condannarne l’arresto e gli è stato detto di farsi gli affari suoi. A ogni pugno di Lavrov ha risposto con una carezza. C’è chi dice che per trattare col Cremlino contano i “muscoli e non quante poesie spagnole conosci”, ma forse è ancor peggio che non ci sia niente di meglio di un signore di 73 anni che ha iniziato a fare politica nel 1975. Va bene l’esperienza, ma anche un po’ di tempi di reazione tornerebbero comodi. Non che si debba mandare un neolaureato in relazioni internazionali a trattare con un volpone come Lavrov, ma una via di mezzo ci sarà pure. Un altro paio di giorni a Mosca e a Borrell avrebbero chiesto indietro l’ex Blocco sovietico, il passaporto francese di Chagall, tutti i dischi del Coro dell’Armata rossa e magari anche le scuse per le reazioni eccessive dopo Chernobyl.

Inutile rimanere inebetiti davanti a Lavrov e poi fare il duro, minacciando sanzioni, una volta all’Europarlamento. Borrell in stile Woody Allen di “Provaci ancora, Sam” che racconta un pestaggio al contrario: “A uno gli ho dato una botta col mento sul pugno, a quell’altro una nasata sul ginocchio”. L’impressione è che cedere il testimone potrebbe essere un atto di decenza per evitare scene alla Wile E. Coyote, il cartoon che continua a camminare nel vuoto non accorgendosi – lui solo – di essere oltre l’orlo del precipizio. O fare la fine del pugile suonato di Beppe Viola, quello che torna all’angolo e chiede “come vado?” per sentirsi rispondere: “Se l’ammazzi fai pari”.

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