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Se per Ungheria e Polonia Bruxelles ‘è come l’Urss’

Lo scontro sullo Stato di diritto blocca i fondi dell'Unione Europea per il rilancio post-Covid

Il primo ministro ungherese Viktor Orbán (Keystone)
25 novembre 2020
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Per aver troppo a lungo tollerato l’intollerabile, l’Unione europea deve nuovamente fronteggiare una dissidenza interna che ne corrode la già fragile coesione. Ungheria e Polonia si rifiutano di sottoscrivere il budget comunitario (chiuso nella morsa del diritto di veto), e perciò bloccano anche il varo dei 750 miliardi destinati al Recovery Fund, il bazooka degli aiuti per sgomberare le macerie socio-economiche del dopo Covid-19. Decisione storica, quella adottata nella maratona di luglio: soprattutto perché per la prima volta si accetta il principio della “mutualizzazione del debito”, da affrontare in comune se si vuole salvare e rilanciare l’Unione. 

Perché allora Budapest e Varsavia vi si oppongono? Perché sia la Commissione di Bruxelles sia il Parlamento europeo vincolano il versamento dei sussidi al rispetto dello Stato di diritto, principio fondante dell’Unione (articolo 7 dei trattati europei), che invece le attuali leadership ungherese e polacca hanno fin qui bistrattato impunemente: il pieno controllo della magistratura e il bavaglio alla libertà di stampa sono soltanto due delle leve di cui gli Orbán e i Kaczynski si servono per svilire, se non snaturare, l’ordinamento democratico, imponendo il loro modello illiberale, nel quale “il partito al governo si sente autorizzato a utilizzare i mezzi di cui dispone (esecutivo, legislativo, poliziesco, mediatico) al fine di mantenere il potere” (Jacques Rupnik, specialista dell’Europa centrale).

Non che l’Ue sia campione irreprensibile dei principi che dovrebbero far parte del suo Dna, spesso sacrificati per egoismo, interessi nazionali, calcoli elettorali. E del resto, quando chiesi a Romano Prodi (allora presidente della Commissione) se l’adesione di quei paesi non fosse troppo precipitosa, rispose che ci sarebbe stata “una virtuosa contaminazione”. Si illudeva. Ma ora il ‘Recovery’ rappresenta un tornante storico, che pretende il rispetto delle regole anche da parte dei paesi spesso ‘dissidenti’ del gruppo di Visegrád; guidati da un populismo prontissimo a incassare i generosi aiuti economici concessi dall’Ue (e non raramente destinati a famigliari, amici e sodali di chi è al governo), rimanendo però una sorta di ‘corpo estraneo’ all’interno dell’Unione. Con una complicazione supplementare per Bruxelles: il fatto che i cosiddetti “membri frugali”, cioè i rigoristi guidati dall’Olanda, si compiacciono dello stallo del Recovery Plan, a cui si erano inutilmente opposti quattro mesi fa.

È probabile che alla fine Polonia e Ungheria (a cui si è associata la Slovenia) accetteranno la soluzione affidata all’ineludibile Angela Merkel: la Germania è il principale investitore in quei paesi; anche a loro serve il Recovery Fund; la sconfitta di Trump li priva di un ispiratore e alleato; e vedono in quale angolo si è cacciato il primo ministro inglese Boris Johnson in un Regno Unito dove (segnala uno studio del Pew Research Center) il 60 per cento della popolazione ha ora un’opinione favorevole dell’Europa. Altro che “Ue nuova Unione Sovietica”, come ha ‘tuonato’ propagandisticamente l’ineffabile Orbán. Ma si sa, il vaccino anti-scemenze non sarà mai scoperto.

 

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