Commento

Facciamo così: spostiamo i teatri a Grancia

'La pandemia si contiene riducendo le relazioni', dice il capo del Decs. Al Centro Lugano Sud sono in più di trenta: portiamo gli spettacoli lì.

Sabato 14 novembre, a nutrire l'anima
16 novembre 2020
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Avete visto Grancia di sabato, in piena pandemia? È esattamente come quando l’aria era pulita e ci potevamo sputare in faccia (nel senso di vicinanza, non di disprezzo). Alle cinque del pomeriggio, visto dall’autostrada, il Centro Lugano Sud già con le lucine è pieno come tutti gli altri sabati. Perché al contrario dei teatri, al Centro Lugano Sud non ci sono limitazioni di entrata. È lì, tra cappottini made in Bangladesh e schermi 50 pollici, che le persone possono mettere in atto quel “nutrimento dell’anima” tanto caldeggiato da Miguel Cienfuegos del Teatro Paravento e da altri direttori artistici; quel nutrimento ridotto a meno di un omogeneizzato dalle limitazioni di pubblico imposte dal governo a sale teatro e altri luoghi di cultura.

È di sabato pomeriggio, giorno di passerotti che se ne vanno via, che all’improvviso ci viene un’illuminazione: visto che a Grancia non c’è il limite di persone – cinque, trenta, cinquanta, mille, siamo tutti uguali – perché dove di solito stanno le sedie da giardino dell’Ikea non montiamo un bel palchetto? Io porto le luci, un altro porta il mixer e un altro ancora due casse. È fatta. Ecco, visto che non ci sono limitazioni di capienza al Centro Lugano Sud, perché non spostiamo i teatri a Grancia?

“Non c’è la volontà di essere cattivi o brutali. C’è la necessità di agire in fretta”, diceva poche ore prima l’onorevole Bertoli a Moby Dick, Rete Due. “L’unico modo di cercare di contenere la pandemia è di ridurre le relazioni”. E ancora: “Il vero problema – riferito alla riduzione della platea da 50 a 5, poi a 30 – è quello che succede prima e succede dopo”. E cioè la gente che si sposta per andare a teatro; gente che, evidentemente, nella concezione dei governanti è diversa dalla gente che frequenta i grandi magazzini. Forse la gente che frequenta il mondo dell’arte fa cose strambe quando va a teatro; forse salta sulle auto come in ‘Saranno Famosi’, forse si abbraccia e si bacia in bocca (d’altra parte è noto, la gente di spettacolo è più disinibita).

Il fatto è che siamo tutti gente di spettacolo, e non è soltanto solidarietà con il mondo dell’arte. Tutti, ogni volta che pubblichiamo un selfie, che diciamo ‘Buongiorno mondo!’, facciamo intrattenimento (e ‘Buongiorno mondo’ è pessimo intrattenimento). Anche noi giornalisti facciamo intrattenimento, perché ‘giornalismo’ non è soltanto dare la notizia, è anche come pubblicarla. Si chiama ‘narrazione’, vocabolo ormai usurato tanto quanto ‘resilienza’, ‘anima’ e ‘Keep calm’. O come la stessa parola ‘giornalista’. Tutti facciamo intrattenimento, anche la politica. Non è forse intrattenimento la bella, baritonale narrazione di montagna che accompagna gli appelli all’unità nazionale dei nostri governanti? Non è intrattenimento quel concetto di cordata che tanto scalda cuori, menti e scarponi, che ci fa sentire montanari anche se abbiamo trascorso l’infanzia in un condominio di cinque piani?

Siamo tutti, o lo siamo stati, almeno una volta nella vita, gente di spettacolo, gente alla quale dobbiamo essere grati e che dobbiamo tutelare. E nel mondo dello spettacolo a volte è un tutto esaurito e altre volte un fiasco. E per la politica, che quando fa narrazione è parte dello spettacolo, questa volta è un fiasco. E quando è un fiasco, nel mondo dello spettacolo si chiede scusa al pubblico.

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