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Per lo sport una domanda e due risposte (opposte)

Da una parte l'ambito professionistico, 'costretto' a trovare un modo per andare avanti; dall'altra quello amatoriale, il cui proseguimento sembra ormai privo di senso

17 ottobre 2020
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Lo si temeva, in fondo lo si sapeva. Il Covid è tornato. O meglio, non se n’è mai andato. E se la speranza era perlomeno che non si presentasse una seconda volta con tanto impeto e meschinità, tale auspicio si sta rivelando una mera illusione, alimentata forse da un periodo di relativa (eccessiva) calma che ha permesso di tornare a vivere una certa normalità. Nel lavoro, nella scuola, nella maggior parte delle attività quotidiane. E nello sport. In quello d’élite, nella maggior parte delle discipline si è persino potuto riprendere la stagione interrotta. Tra ferrei protocolli, limitazioni e qualche quarantena, si sono conclusi ad esempio molti dei principali campionati europei di calcio, così come sono ripartite le competizioni di ciclismo, atletica, tennis e il resto. Il tutto senza particolari scossoni, tanto che i nuovi campionati sono iniziati accompagnati da un cauto ottimismo. Che ora però vacilla, se non è già crollato.

Il numero di contagi è infatti ripreso a salire vertiginosamente in tutto il mondo e lo sport si sta rendendo conto che i suoi protocolli di protezione non lo rendono immune. Anzi, posto che chiudere ermeticamente fuori dal mondo sportivo il virus è praticamente impossibile – se non attraverso una “bolla” come quella creata a Disney World dalla Nba, ma difficilmente replicabile per strutture e costi – e che nella maggior parte delle discipline il contatto, per quanto in alcuni casi limitato, non può essere evitato, lo sport per certi versi presta il fianco al Covid innescando una serie di reazioni a catena che ne minano il regolare svolgimento, tra squadre costrette a mandare in campo le selezioni giovanili, altre private temporaneamente di elementi più o meno importanti, altre ancora escluse da una determinata competizione o costrette a tour de force per recuperare le partite rinviate a causa di una quarantena (propria o di altre compagini). Notizie del genere, così come la chiusura di determinati eventi al pubblico (l’ultima ad esempio riguarda le gare della Coppa del mondo di sci in Svizzera) o peggio l’annullamento (in Ticino l’ultimo a saltare in ordine di tempo è il meeting di nuoto della Turrita) sono ormai all’ordine del giorno. Per restare nel nostro cantone, solo nell’ultima settimana sono finiti in quarantena Gdt Bellinzona, Acb, Lugano di hockey e di basket.

È vero, si sapeva che il coronavirus sarebbe entrato a far parte del gioco, ma forse è davvero ora di chiedersi fino a che punto abbia senso giocare. E se nel caso dello sport professionistico la risposta è già scritta in tutti gli sforzi, finanziari e non, che autorità, federazioni, società e giocatori stessi hanno intrapreso per cercare di evitare un ulteriore stop che nella maggior parte dei casi significherebbe fallimento, con tutte le conseguenze del caso legate anche a chi di sport ci campa pur non scendendo in campo, altrettanto scontata – per quanto nel senso opposto e per questo dolorosa – appare la risposta in ambito amatoriale, considerando anche che molti dei focolai emersi in Ticino erano legati a compagini del calcio regionale. E in un momento nel quale i Paesi che ci stanno attorno sono arrivati, chi più chi meno, a dire alla gente cosa fare e non fare in casa propria, davvero riteniamo di non poter rinunciare a una delle nostre libertà (che per quanto importante rimane un passatempo) per provare a preservarne altre ben più fondamentali?

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