Il ricordo

Un’ultima notte con Erminio Ferrari, giornalista

Era un maestro, anche se quando glielo dicevi faceva finta d'incazzarsi. E sapeva 'fare attenzione a non sporcare in giro'

Fotografato di nascosto in sala caffè (L.E.)
14 ottobre 2020
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“Ciao Leruà, domani faccio prepensionamento, ci vediamo giovedì”. Erminio Ferrari si divertiva a storpiare il mio nome alla francese, e chiamava “prepensionamento” il suo mercoledì libero. Martedì scorso, al momento di chiudere la pagina di estero, erano come al solito le undici passate; mi è scivolato davanti facendo il consueto gesto di allacciarsi la giacca a vento, allontanandosi dalla redazione con quel passo leggero e quella corporatura minuta che a volte lo rendevano quasi invisibile. Erminio aveva la penna migliore del giornalismo ticinese, e non solo. Lo scrivo pensando che riderà, perché odiava le frasi fatte, e quando gli dicevo “bella penna” mi rispondeva “in effetti son stato negli Alpini”.

Da quando ci siamo conosciuti, quattro anni fa o giù di lì, penso che siamo diventati un po’ amici, anche se lui rimaneva una persona schiva. Ma si vedeva che quel caffè quotidiano a parlare di cose che non fossero la redazione, spesso insieme alla nostra collega Paola, faceva bene a tutti. L’ultimo lo abbiamo preso un’oretta prima di salutarci per la notte. Mi ha raccontato di come da giovane, dopo il militare – “l’anno più stupido della mia vita” – avesse preso l’abitudine di tenere la radio accesa tutta la notte, e di come nel dormiveglia avesse scoperto “un sacco di jazz”. Mi ha parlato come al solito di quello che stava leggendo: gli devo una buona metà di quanto ho scoperto ultimamente, anche se non riuscivo minimamente a star dietro ai suoi ritmi. Poi si è lamentato di non poter andare abbastanza spesso in montagna.

Questo mestiere me l’ha insegnato anzitutto lui, quasi senza volerlo e soprattutto con l’esempio, fin da quando ci incrociavamo sulle pagine di estero. È stato il mio primo maestro, insomma, anche se l’appellativo lo spingeva a fingere stizzite incazzature. È strano scrivere per la prima volta senza di lui, ed è tremendo doverlo fare proprio su di lui, dopo che per anni abbiamo letto e commentato reciprocamente tutte le bozze dei nostri pezzi, oltre a quelle dei suoi racconti. Me lo vedo accanto e penso che forse dovrei togliere quell’”incazzature”, altrimenti mi direbbe che “è meglio tenere il registro, evita gli sbalzi”. Mi aiutava sempre con la sua gentilezza un po’ ruvida, da gente d’altura (“Gente d’altura? Leruà, ma che cazzo scrivi?”, lo sento già).

Era testardo e aveva le sue ombre, come tutti noi suppongo, ma non era mai sgarbato. Credeva in un giornalismo fatto di buona coscienza, di precisione e di studio più che di scoop, e mi ricordava spesso una frase dello scrittore svedese Göran Tunström: “Bisogna fare attenzione a non sporcare in giro con le nostre parole”. Hai ragione tu, Erminio.

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