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Accordo quadro, Consiglio federale tra l’incudine e il martello

Il progetto nel paese è inviso a tutti o quasi. Ma l’alternativa non sarà lo statu quo e rischia di costare cara alla Svizzera

(Keystone)
28 settembre 2020
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Il netto ‘no’ (61,7%) uscito ieri dalle urne è la riprova che una buona maggioranza delle cittadine e dei cittadini di questo Paese apprezza la libera circolazione delle persone con l’Ue (misure d’accompagnamento incluse), reputa i suoi vantaggi superiori agli svantaggi, la ritiene in fondo più idonea di quegli strumenti di ‘gestione autonoma dell’immigrazione’ (contingenti, tetti massimi, preferenza indigena) cari all’Udc, e che pure approvò per un pelo nel 2014. Non solo. Il risultato del voto sull’iniziativa popolare ‘Per un’immigrazione moderata’ – che in virtù della clausola ghigliottina avrebbe finito per fare carta straccia anche degli altri sei accordi dei Bilaterali I – può essere letto più in generale come un ulteriore beneplacito alla via bilaterale, il prudente cammino che il Consiglio federale scelse di imboccare dopo il ‘no’ di 28 anni fa allo Spazio economico europeo.

Da oggi però si gioca tutta un’altra partita. Una partita importante, perché è difficile pensare che questa via, come l’abbiamo conosciuta sin qui, possa essere percorsa ancora a lungo senza scossoni (leggi: misure di ritorsione più o meno velate da parte dell’Ue). La Commissione europea lo ha ripetuto più volte: nessuna nuova intesa bilaterale, nessuna attualizzazione di quelle (statiche) esistenti, senza un accordo quadro tra Svizzera e Ue che faccia da cornice istituzionale (ripresa dinamica del diritto comunitario, composizione delle controversie, ecc.) ai cinque principali accordi di accesso al mercato esistenti e a quelli futuri. E l’esecutivo europeo ha già mostrato (vedi il temporaneo declassamento della Svizzera nei programmi europei sulla ricerca ‘Orizzonte 2020’ e sulla formazione ‘Erasmus+’) di non avere armi spuntate.

Il fatto è che l’attuale progetto di accordo non ha alcuna chance di ottenere una maggioranza in Parlamento. La stessa consigliera federale Karin Keller-Sutter (Plr) non nasconde il suo scetticismo nei confronti del testo sul tavolo dal dicembre 2018, frutto di cinque anni di trattative. Sulla ‘Nzz’ l’ex consigliere federale Johann Schneider-Ammann ha messo nero su bianco quel che molti pensano, ma che quasi nessuno osava dire: “L’equilibrio tra sovranità statale e accesso al mercato europeo è andato perduto a scapito della Svizzera”. E i partner sociali già a metà agosto hanno segnalato al Consiglio federale, in una lettera rivelata solo venerdì dalla Srf, che nella forma attuale questo accordo non può essere firmato.

Insomma, non si vede come potranno bastare quei “chiarimenti” richiesti dal Consiglio federale sui tre punti in sospeso (misure d’accompagnamento, aiuti statali, direttiva Ue sulla cittadinanza). Servirà con ogni probabilità ben altro: negoziati veri e propri, che facciano venire al pettine i nodi fondamentali (come quello del ruolo affidato alla Corte di giustizia dell’Ue nel previsto meccanismo di composizione delle controversie). L’Ue però non ne vuole sapere. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen lo ha ribadito ieri: chiarimenti sì, ma l’accordo è quello. Punto.

Il Consiglio federale si trova così tra l’incudine di un accordo quadro inviso a tutti o quasi e il martello di una via bilaterale destinata a illanguidire, se non a farsi accidentata. Il Governo prima o poi potrebbe anche optare per quest’ultimo scenario, nella speranza (quanto fondata?) di ricominciare un giorno la partita su un terreno meno scivoloso, su una base meno ambiziosa, magari con nuovi giocatori/negoziatori da mandare a Bruxelles. Il punto è: quale prezzo siamo disposti a pagare per uno statu quo che tale non sarà?

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