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Un atto d’amore

La sentenza emessa ieri a favore di Mina Welby e Marco Cappato è un fatto nuovo non soltanto per l’assoluzione dei due

28 luglio 2020
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Allora c’è un giudice a Massa Carrara. Anzi: ci sono un giudice e un pubblico ministero che hanno riconosciuto non soltanto il diritto di disporre della propria vita, fino a deciderne eventualmente la fine, ma anche – ed è per questo che si finisce a processo – il diritto di aiutare chi, pur volendolo, ne è reso impossibilitato da una malattia. Quella stessa malattia che conduce chi ne soffre a chiedere di farla finita, pur contro la legge e contro le vestali di un concetto inamovibile di vita, più che della vita stessa.

La sentenza emessa ieri a favore di Mina Welby e Marco Cappato, imputati di avere accompagnato in Svizzera un malato di Sla che aveva richiesto il suicidio assistito, è un fatto nuovo non soltanto per l’assoluzione dei due, dovuta probabilmente alla “estensione” del concetto di sostegno vitale anche alle terapie farmacologiche e non soltanto alla dipendenza del malato da una “macchina”. La novità risiede soprattutto nel fatto che è seguita alla requisitoria in cui la pubblica accusa si è detta obbligata dalla legge a chiedere una condanna che in coscienza reputava ingiusta.

Chiedendo la condanna di Welby e Cappato, non nuovi a questi gesti, il pubblico ministero ha enfatizzato la “nobiltà dei loro intenti”. Il loro, compiuto nell’interesse della persona che lo aveva richiesto, è stato un atto “a cui mancano i presupposti che lo rendano lecito”, ha anche sottolineato. 

Manca cioè una legge, ha inteso il magistrato, che regoli la materia in maniera equa. Senza cioè prestarsi alla rigidità dottrinale di certo cattolicesimo, o, peggio, all’ipocrita “battaglia per la vita” di quegli ambienti che fanno della sua “sacralità” (travisandola, peraltro) un vessillo identitario. Spesso gli stessi circoli politici e di opinione che denunciano l’intrusione della legge nelle scelte individuali (ah, la libertà minacciata da una mascherina…) e che verso altre “vite”, soprattutto se venute da lontano, non manifestano uguale sollecitudine. 

Da tempo la Corte costituzionale italiana ha sollecitato il parlamento a legiferare. Dunque, ad essere oggetto di una requisitoria dovrebbero essere il ritardo e le omissioni, i mercanteggiamenti osceni che si trascinano da più di una legislatura. Pur ad essi si deve la clandestinità obbligata di un passo così estremo e incondizionato, consumato talora in circostanze e siti ben diversi dalla falsa “serenità” pubblicizzata da una certa industria della “buona morte”, della quale non è il caso di farsi paladini.

Anche in questo caso, poi, rischia di essere ben sterile l’opposizione favorevoli-contrari, poiché non è di questo che si tratta, ma della tutela della libertà di decidere per sé, quale che sia la scelta. Il rispetto per la vita comincia da quella altrui (il “prossimo”, se vogliamo), e pretendere che essa si risolva nella sua dimensione biologica è una forma di sopraffazione quando non ne accoglie le istanze psichiche o morali o spirituali, le si chiami come si vuole.

Mina Welby, ottant’anni, ha detto di avere accompagnato a morire la persona che glielo aveva chiesto, per un atto d’amore, e “perché sono cattolica”. Altri cattolici non l’avrebbero fatto, con uguale trasparenza di cuore. Alla legge di un Paese laico si chiede di riconoscere entrambe.

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