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Covid-19, quel cortocircuito tra crisi e assistenza

Sono 8’300 le persone finite a carico dell’assistenza sociale. E come nel 1929, il rischio è ampliare la frattura sociale già esistente tra chi ha e chi non ha

Archivio Ti-Press

Dallo scoppio della crisi legata alla pandemia di coronavirus, in Svizzera circa 8’300 persone sono finite a carico dell’assistenza sociale. Tra di esse anche quei lavoratori indipendenti che già prima della pandemia manifestavano fragilità finanziaria e che a malapena riuscivano a tenere in piedi la loro attività economica. Sintomo di una precarizzazione dei modi di produzione che ha trasformato in liberi professionisti tanti ex salariati. A questi si sono aggiunti anche molti lavoratori dipendenti che si trovano forzatamente in regime di lavoro ridotto a causa degli effetti negativi della crisi di coronavirus. A rendere note le cifre è stato Christoph Eymann, il presidente della Conferenza svizzera delle istituzioni dell’azione sociale (Cosas). Dati che hanno sorpreso – per l’ampiezza e la precocità degli effetti – la stessa Conferenza e che preoccupano in vista dell’autunno quando molte delle misure d’urgenza varate dal governo federale, tra cui le indennità per lavoro ridotto, giungeranno a scadenza. Il consigliere federale Guy Parmelin, responsabile del Dipartimento dell’economia, ha fatto intendere nelle scorse settimane che, se sarà necessario, si è pronti a prorogare ulteriormente tale provvedimento di altri tre mesi. Il che vuol dire che verrà dato più tempo alle aziende colpite dalla crisi per riorganizzarsi, riequilibrare la struttura dei costi alle mutate condizioni di mercato e cercare di ripartire con nuovi modelli di business e meno personale. Il settore del commercio al dettaglio dei centri cittadini, per esempio, è uno di quelli che già prima del lockdown soffriva i cambiamenti strutturali (mutate abitudini di consumo) e che dovranno giocoforza reinventarsi per affrontare le sfide della digitalizzazione. Nel frattempo una severa ristrutturazione, che tradotto bruscamente vuol dire una serie di chiusure volontarie e non, sarà inevitabile. Stesso destino lo avranno altre imprese legate soprattutto al mondo dei servizi. Insomma, la pandemia di coronavirus, o meglio gli effetti da questa scatenati, rischia di essere un vero e proprio tsunami che cancellerà migliaia di aziende e altrettanti posti di lavoro in Svizzera. Dinamiche, del resto, comuni a quasi tutte le economie mondiali con il rischio che il 2020 replichi quanto avvenuto nel ’29 del secolo scorso: ampliare ulteriormente la frattura sociale già esistente tra chi ha e chi non ha.

Stando alle ultime previsioni economiche del Kof, il centro congiunturale del Politecnico di Zurigo, il Prodotto interno lordo dovrebbe scendere quest’anno del 5,3%. Un calo che invece secondo gli esperti della Segreteria di Stato per l’economia (Seco) potrebbe arrivare addirittura al 6,2% o superare il 7% in caso di un’ulteriore ondata epidemica. Cifre più basse di altre economie a noi vicine o lontane, ma che rappresentano un unicum ‘negativo’ per la Svizzera riscontrabile solo se si va a ritroso nel tempo di mezzo secolo. Se si tiene conto che gran parte del Pil elvetico è realizzato anche grazie all’interscambio commerciale con queste economie, è chiaro a chiunque che il protrarsi della crisi internazionale diminuisce le chance di ripresa. Con il crollo del Pil dovrebbe poi aumentare il tasso dei senza lavoro e di conseguenza anche il numero di coloro che finiscono le indennità di disoccupazione e che sono i migliori candidati all’assistenza sociale.

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