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Una luce rossa per il lavoro e la cultura

‘Night of Light’, l'iniziativa che ieri sera ha colorato di rosso la Svizzera, ci ricorda l'importanza non solo economica degli eventi culturali

La cultura in rosso (Ti-Press/Pablo Gianinazzi)
23 giugno 2020
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Si sono tinti di rosso, ieri sera, i luoghi della cultura; in genere simili spettacoli di luci celebrano qualche ricorrenza o avvenimento. Non ieri sera: quell’illuminazione sanguigna non è stata un festeggiamento per l’allentamento delle misure sanitarie, ma il contrario: un segnale d’allarme. Certo, proprio nei giorni scorsi il Consiglio federale ha deciso, dopo aver riaperto musei, cinema e teatri, di permettere manifestazioni fino a mille persone, ma quello degli eventi non è un settore che si può chiudere e riaprire come un rubinetto. Un conto è poter ospitare nuovamente il pubblico, un altro è avere qualcosa da proporre: ci vuole tempo per organizzare concerti e spettacoli, e ci vogliono certezze che al momento è difficile avere.

Da qui l’iniziativa ‘Night of Light’: illuminare di rosso le facciate di teatri, centri culturali, sale da concerto, oltre che delle aziende che eventi li organizzano e gestiscono. Per ricordare, alla politica e alla popolazione, che la crisi nei settori degli eventi e della cultura durerà ancora a lungo – e a lungo dovranno quindi essere mantenute le misure di sostegno, se non si vuole la chiusura definitiva di realtà grandi e piccole, il fallimento di tanti professionisti.

Il problema non sono solo la scarsa conoscenza del lavoro organizzativo e logistico che sta dietro uno spettacolo o la sottovalutazione del valore economico di queste attività – si parla di 70 miliardi di franchi, 71mila aziende e 275mila persone –, ma anche alcuni pregiudizi riguardanti il lavoro culturale. Iniziando dal fatto che, appunto, è un lavoro: se è vero che molti praticano la musica, la danza o il teatro a livello amatoriale, per altri non è (solo) questione di diletto e passione, ma una professione.

Includendo, ma il confine è talvolta sottile, non solo i creativi, ma anche tutti i tecnici che prestano la loro opera “dietro le quinte”. Un lavoro non sempre riconosciuto come tale, quasi che non fossero necessari competenze e impegno.

“La cultura è il mio mestiere” è il titolo di un’altra campagna di sensibilizzazione alla quale hanno aderito oltre cinquemila professionisti, tra musicisti, tecnici di scena, attori, artisti, accessoristi, cantanti, fotografi, mediatori e via elencando (nomi e qualifiche si trovano sul sito cultureismyjob.ch). Ma non si tratta solo di una rivendicazione sindacale: la professionalizzazione della cultura è stata infatti un’importante conquista per tutta la società. Non solo per la qualità dei prodotti culturali – dal semplice intrattenimento, comunque importante, a opere critiche verso la nostra realtà –, ma soprattutto per l’indipendenza che, per quanto imperfetta, l’economia cultura ha portato. Se pensiamo alle grandi opere del passato, troviamo quasi sempre la dedica a qualche potente dell’epoca che ha sostenuto l’artista. Certo il mecenatismo è importante ancora adesso, ma all’interno di un sistema pluralistico – nel quale trova ovviamente spazio anche il sostegno pubblico – che a causa delle misure di contrasto alla pandemia rischia di crollare. Un sistema imperfetto e certamente migliorabile, ma per farlo occorre che rimanga qualcosa in piedi, conclusa l’emergenza sanitaria.

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