Commento

E se facessimo la guerra degli orologi con Trump

Mentre gli orologi svizzeri calavano del 13 per cento rispetto all’anno prima, la Apple saliva del 36 per cento

15 febbraio 2020
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Se i consiglieri federali Cassis o Parmelin avessero del presidente Trump non tanto la stazza fisica quanto la sfrontatezza mentale, dovrebbero dichiarargli guerra, ricorrendo alla sua stessa strategia: America first o prima i nostri. Avremmo finalmente la guerra degli orologi: alzare il tiro dei dazi, difendersi, colpire. Risulta infatti (rapporto della Boston Strategy Analitics) che la sola Apple Watch, lo scorso anno, ha venduto più orologi di tutte le principali fabbriche svizzere messe assieme. Mentre gli orologi svizzeri calavano del 13 per cento rispetto all’anno prima, la Apple saliva del 36 per cento. Gli Stati Uniti, ci dicono Cassis e Parmelin, non sono però l’Unione europea. Della quale ci disturbano più gli uomini liberamente circolanti che non lo scambio di merci e di capitali o perché Bruxelles, a differenza di Washington, ci fa perdere identità e sovranità. Con gli Usa si impone subito la resa: lo si è fatto con le banche, mettendo a subbuglio l’amministrazione federale e inviando penalità plurimiliardarie al Ministero di giustizia a Washington; con il segreto bancario, demolendolo; con il fisco, accettando loro regole ch’essi stessi non applicano (v. i loro paradisi fiscali, come il Delaware); con il timore di chi sa quale ritorsione se si chiedessero legittime imposte sugli stramiliardari utili delle multinazionali di rete (la non-discussa WebTax) che prosciugano anche pubblicità ai nostri media; con l’extraterritorialità e imposizione del loro diritto e della loro politica estera (v. Iran, Cuba, Medio Oriente, America latina, Cina, gasdotti russi, protezionismo, questione palestinese e altro ancora). Anzi, si sventola dopo Davos un possibile accordo di libero-scambio che chiamerà alla cassa anche la nostra agricoltura o forse renderà più agevole la vendita dei futuri caccia per la difesa dei nostri cieli.

La riduzione dei tassi di interesse

C’è un aspetto che mai si tocca in questa sorte di nostro vassallaggio americano (l’hanno toccato, a dire il vero, nostri economisti, come Sergio Rossi e Christian Marazzi). C’entra la riduzione dei tassi di interesse. Pratica ormai in vigore da cinque anni in casa nostra, anche con la giustificazione di tener basso il cambio del franco per non nuocere alle esportazioni. Con una conseguenza importante (da aggiungere alla crescita inflazionistica dei mercati finanziari e immobiliari e all’enorme indebitamento di imprese e famiglie): con tassi a zero o depositi bancari negativi (ormai alla banca si dà più di quel che si riceve) risparmiatori e investitori cercano una via di fuga in rendimenti più favorevoli. E così capitano sui buoni del Tesoro americano (che ti danno ancora un 1,78 per cento). Svizzera e Unione europea sono così diventati i più grandi finanziatori del debito pubblico americano e quindi dello sbandierato “miracolo economico” trumpiano. Con un gioco farsesco: il dollaro sale rispetto all’euro e al franco, le esportazioni verso gli Stati Uniti, meno care, tendono quindi ad aumentare, Trump dovrà minacciare altri aumenti dei dazi per il “prima i nostri” (come sta facendo per le automobili e farà forse anche per gli orologi o i formaggi svizzeri) o ricorrerà ad accordi di libero scambio dove sa giocare il vecchio affarista.

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