Commento

Chi vivrà nelle città? La domanda rischia di diventare retorica

Respinta l'iniziativa dell'Associazione inquilini. Ma il problema della carenza di alloggi nelle aree urbane non perde nulla della sua attualità.

(Keystone)
10 febbraio 2020
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«Chi vivrà nelle città?» Per Leilani Fahra, relatrice speciale dell’Onu sul diritto all’alloggio, è questa la domanda. Da Harlem (New York) all’Alfama (Lisbona), da Kreuzberg (Berlino) all’Isola (Milano), interi quartieri un tempo ‘popolari’ cambiano volto: case e palazzi vengono rasi al suolo; al loro posto, edifici di lusso o di standing medio-alto, negozi e locali alla moda. La cosiddetta gentrificazione porta con sé affitti inarrivabili per i più. Non solo i poveri, anche chi fa parte del ceto medio viene spinto fuori, verso la cintura urbana o in campagna. Le città presto solo per persone facoltose?

La Länggasse a Berna, i Pâquis a Ginevra, la Langstrasse a Zurigo: anche da noi ampie porzioni di territorio urbano sono ‘riqualificate’, trasformate in quartieri ‘trendy’. E perfino il Consiglio federale lo ammette: “Soprattutto nelle aree urbane può essere ancora difficile trovare un alloggio corrispondente alle proprie possibilità finanziarie”. D’accordo: non esiste un diritto a vivere in città. Ma vogliamo che queste siano appannaggio di un’élite, oppure che restino specchio di una – diversamente ricca – società?

L’iniziativa dell’Associazione svizzera inquilini respinta ieri non offriva garanzie contro derive che fortunatamente in Svizzera non conosciamo. Sottraendo una fettina del mercato immobiliare alla logica dell’offerta e della domanda, e al di là di una rigidità che poteva essere sciolta con una legge d’attuazione ragionevole, avrebbe però almeno corretto una stortura di questo mercato, stortura che così al contrario è destinata a consolidarsi: la penuria di alloggi a prezzi accessibili nelle città e negli agglomerati.

Confederazione, Cantoni e Comuni continueranno invece a restare attori impalpabili su un mercato che garantisce lauti profitti a casse pensione, fondi d’investimento, grandi società immobiliari. I 25 milioni l’anno in media su un decennio con i quali ora sarà rimpinguato il Fondo di rotazione sono un’inezia: serviranno giusto a mantenere l’attuale quota di alloggi di utilità pubblica, ferma da tempo al 4-5%. Ma anche se ne verranno versati di più, come pretendono i promotori dell’iniziativa, il problema di fondo – ossia la mancanza di terreni idonei, soprattutto nelle città – resterà. Per questo bisogna che in futuro Cantoni e Comuni si dimostrino più attivi, introducendo loro stessi quote o un diritto di prelazione, ma anche agendo a livello di pianificazione territoriale. Niente di meno certo, in assenza di prescrizioni dall’alto. E vista la risolutezza con la quale chi ora si dice aperto a soluzioni ‘federalistiche’ ha sin qui combattuto – a volte fino al Tribunale federale – progetti a livello comunale che andavano in questa direzione.

Invece, in Parlamento la lobby dell’immobiliare già prepara l’affondo. In passato, perfino timide misure volte a far fronte alla penuria di alloggi a pigione moderata, o a contenere la spinta al rialzo degli affitti, non hanno avuto scampo. La destra, ad esempio, non ne ha voluto sapere di obbligare i proprietari a comunicare ai nuovi locatari la pigione versata dal precedente inquilino. A Berna sono tuttora pendenti tre iniziative parlamentari che non promettono nulla di buono per gli inquilini: una dell’ex consigliere nazionale Hans Egloff (Udc), presidente dell’Associazione svizzera dei proprietari fondiari, che chiede di allentare i criteri per definire abusiva una pigione; Olivier Feller (Plr) vuole aggiornare (a favore dei padroni di casa) le modalità di calcolo del reddito ammissibile, portandolo dallo 0,5% al 2%; e Philippe Nantermod (Plr) chiede di limitare alle zone in cui vi è penuria le disposizioni riguardanti le pigioni abusive e la contestazione della pigione iniziale.

“Chi vivrà nelle città?” La domanda rischia di diventare retorica.

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