Distruzioni per l'uso

Quei discorsi sull’identità che sentiamo sempre sotto Natale

L’islamizzazione del presepe, le radici cristiane dell’Occidente e altre cose così, perché sennò che Avvento sarebbe?

Il presepe sommerso a Lugano (Ti-Press/Pablo Gianinazzi)
21 dicembre 2019
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Ah, Natale. Quanti ricordi, quante rassicuranti tradizioni: il panettone, la replica di ‘Una poltrona per due’, il vin brulé, il reflusso gastroesofageo. E naturalmente le filippiche sull’identità cristiana, perché non sarebbe festa senza un bel calendario dell’Avvento che dietro ogni finestrella custodisce una tirata reazionaria. Puntuale come il San Nicolao è arrivato Giorgio Ghiringhelli, il Guastafeste, con la sua indignazione per il minareto visto in un presepe a Tenero. Un grande classico, quello del presepe moderno come sintomo della decadenza occidentale, ma a dirla tutta un po’ usurato; anche se è divertente pensare che il destino dell’Occidente stia appeso agli allestimenti natalizi d’un bar di provincia: “Ce la vuole la scorza d’islamizzazione, nello spritz?”. 

Meglio immergersi nelle più raffinate riflessioni del liberalconservatore Sergio Morisoli, che ci richiama tutti all’ordine per “recuperare l’identità”. Nel suo canto di Natale “la stalla gelida di Betlemme riscaldata dall’alito del bue e dell’asino è stata il big bang della grandezza occidentale”. Altro che “i soliti due secoli illuministi”, è stato il cristianesimo che “ha fatto miracoli economici e sociali perpetuatisi fino ai nostri giorni, e impossibili altrove”. E questo perché con la venuta di Cristo “bene e male non saranno più categorie relative, arbitrarie, mutevoli e indefinibili per l’uomo, ma assolute, cioè verità”. 

Poi si finisce a baciar crocifissi con Salvini

Mi guardo bene dal criticare questo ‘in hoc signo vinces’ dal punto di vista teologico: mi pare un po’ manicheo, ma “chi sono io per giudicare?” ha detto qualcuno più saggio di me. Né intendo cedere al riflesso condizionato che a ogni affermazione sulla grandezza cristiana oppone un Galileo o un Giordano Bruno, e scivola facilmente in opposti estremismi. Mi limito a notare che con questi discorsi, da un punto di vista banalmente politico, si finisce per legittimare il tribalismo più vieto. Finendo – involontariamente, spero – nello stesso mazzo dei Salvini che baciano crocifissi, delle Meloni che urlano sguaiatamente “sono cristiana!” (e a me, chissà perché, fanno venire in mente il matto nell’Amarcord di Fellini, quello che in cima a un albero urlava “voglio una donnaaaaa!”). Si divide, invece di unire. Tanto più che così si sdogana anche la reazione uguale e contraria: quella di un’ultrasinistra che gorgheggia la sua laica superiorità morale, e che nei casi più deteriori non è meno identitaria della destra.
Quanto al concetto stesso di identità, non dico che sia superfluo riconoscersi in un gruppo, in una comunità, per quanto sfuggente e nebulosa (sui limiti e le contraddizioni del concetto merita una lettura ‘The Lies That Bind’, le ‘bugie che uniscono’ del filosofo anglo-ghanese Anthony Appiah). Comunque sia, non credo che a quell’identità si possano imporre a viva forza le stigmate del cattosovranismo più codino, noi di qua loro di là, buoni e cattivi, neisecolideisecoliàmen.


Non è mica colpa del multikulti

Se poi osservo i movimenti che a questa benedetta identità cristiana si richiamano pervicacemente – Udc in primis –, penso che il loro seguito abbia poco a che vedere coi discorsi sulle radici e simili amenità. Quello è marketing, è creazione di un marchio profilato e riconoscibile, in larga misura uno specchietto per le allodole. Ma in fondo quei partiti devono il loro codazzo proprio alla crisi di quell’identità condivisa; e siccome ci campano, si guardano bene dal provare a risolverla.

Ché quella crisi non è colpa del multiculturalismo e dell’egualitarismo – quando mai –, quanto piuttosto d’una situazione economica che sta creando fratture profonde nel patto sociale. Suona marxiano, lo so: la struttura che determina la sovrastruttura, eccetera. Eppure lo dice anche David Autor, sagace economista del Massachusetts Institute of Technology: “La nostra identità – il gruppo al quale sentiamo di appartenere: la nazione, la classe operaia… – è malleabile, ed è ridefinita molto rapidamente dagli shock economici. Improvvisamente ti senti tagliato fuori da quella che credevi la tua comunità, inizi a vedere nuovi nemici. Ed ecco che sposi tesi populiste”. Laddove le pressioni economiche azzoppano le speranze e accrescono le disuguaglianze, la società si fa granulosa, ostile perfino a sé stessa. E non sarà riunendoci attorno al presepe che invertiremo questa tendenza. 

Ma ora la smetto, via: buon Natale a tutti, scettici e credenti, ‘smarriti’ e ‘redenti’.

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