Commento

Burqa: puntare su divieto e integrazione

Qui è così, ci si identifica attraverso il volto

13 dicembre 2019
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Senza timore di sbagliare, possiamo affermare che il vivace dibattito tenutosi ieri al Consiglio nazionale sulla dissimulazione o meno del viso (tramite burqa) a Sud delle Alpi lo abbiamo già vissuto.

Un dibattito, come ricorderete, avvenuto al momento della raccolta delle firme a sostegno dell’iniziativa cantonale anti-burqa e poi proseguito in vista del voto sfociato infine in una legge ad hoc.

Confronti che dividono

Un confronto di idee che ha diviso l’opinione pubblica fra chi desidera difendere le donne musulmane, ritenendo che ciascuno può vestirsi come meglio crede – e quindi anche nascondendo il viso – e chi sostiene che nasconderlo sia invece segno di sottomissione ad una certa cultura e a dettami religiosi che non hanno conosciuto l’era dei lumi e non ne accettano le conquiste parte integrante della nostra cultura.

Contrapposizioni fra chi pensa quindi di liberare la donna dalla sottomissione, emancipandola proprio grazie all’introduzione del divieto di portare il copricapo integrale e chi sostiene invece che no, quelle donne il velo integrale lo portano liberamente. E anche discussioni fra chi ne fa una questione di parità di trattamento fra noi e loro: sintanto che noi dobbiamo adattarci ad altri costumi quando viaggiamo nei loro Paesi, loro devono adattarsi ai nostri costumi quando vengono qui. Quindi vadano in giro a volto scoperto. E via dicendo.

Se si affronta il dibattito utilizzando questi ‘ingredienti’ si rischia di perdersi e di finire per sostenere tesi che hanno sullo sfondo la valutazione di altre culture in rapporto alla nostra, il che porta spesso al rischio di sentirsi superiori (in base a cosa?) o diversi rispetto agli altri.

Qui da noi è così

Ragione per la quale per togliersi d’impiccio da questi distinguo si salta il fosso e – giustamente – si conclude col dire: qui da noi è così, ci si identifica attraverso il volto e quindi quando si va a spasso sulla pubblica via e, a maggior ragione quando si ha a che fare con le autorità, lo si deve fare a volto scoperto. Questione insomma di identificabilità e di sicurezza. Il che, fra l’altro, vale anche per chi porta il casco e sceso dalla moto e fatto il pieno non può entrare dal benzinaio a pagare col casco in testa e in altri analoghi casi.
Resta comunque aperta la discussione su un paio di aspetti che ben conosciamo: ma certe leggi che ci sono costate dibattiti fiume, commissioni su commissioni parlamentari e votazioni (velo, minareti…) per chi le facciamo? Quanti sono i casi concreti di applicazione? Risposta: pochi a giudicare cosa è poi successo perlomeno da noi. Altra domanda di natura più veniale: ma non rischiamo di farci del male, nel senso che certi turisti arabi che prima andavano e venivano da città come Ginevra (da noi si citava via Nassa a Lugano) ora potranno storcere il naso e girare alla larga? È possibile, ma sembrerebbe di no e poi – come si suol dire – non tutti i cerchi si possono quadrare.

Viva le misure attive

Certo è che alla base di questi dibattiti c’è spesso anche la paura del diverso e talune formazioni hanno deciso di farne una bandiera per raccogliere facili consensi. Contenerli è difficile.

Ieri a Berna – e ci è piaciuto – si è però discusso non solo di divieti, ma anche di misure attive pro integrazione attraverso una sorta di controprogetto ‘arricchito’ all’iniziativa. Un approccio interessante perché, se da un lato si intende limitare (col divieto: il volto va mostrato), dall’altro si è anche pronti ad investire, scommettendo attivamente sull’integrazione. Cioè sul nostro futuro che è già presente.

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