Commento

Il capitalismo sta bene. Chissà il mondo

Ci sono più cinesi che americani tra il 10% delle persone più ricche del pianeta. L'accumulazione ormai è un obbligo anche in un Paese formalmente comunista

Sistemi a confronto (Keystone)
16 novembre 2019
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Tra il dieci per cento delle persone più ricche del pianeta si trovano più cinesi che americani. Ce lo dice uno studio del Credito Svizzero.

Nella Repubblica popolare, guidata dal partito unico comunista da settant’anni, nonostante la strabiliante crescita, l’ineguaglianza regna sempre sovrana: l’uno per cento degli abitanti possiede il trenta per cento della ricchezza del Paese. L’80 per cento del valore aggiunto viene dal settore privato, strutturato in maniera capitalista.

Vien voglia di trarre subito qualche conclusione spiccia: tutto il mondo è paese, basta fare soldi; l’accumulazione del capitale è il motore e quindi anche i cinesi han preso il marxismo al rovescio; il capitalismo è in piena salute anche là dove non dovrebbe essere; aveva ragione tale donna di ferro che sentenziava “there is no alternative”, non c’è alternativa.

È vero, un buon sillogismo non vuole le conclusioni più grandi delle premesse. Aggiungiamo allora che negli ultimi anni siamo stati seppelliti da libri, articoli, sentenze di movimenti e partiti sulla scomparsa o il superamento del capitalismo.

Ancora lo scorso mese di settembre uno dei fari del capitalismo, il “Financial Times”, su un’intera pagina titolava: “Capitalism, Time for a Reset” (e tutti capiamo che significa). È rimasto nella memoria un forte e caustico articolo di un’altra bibbia del capitalismo, “The economist”, in cui si invitava a una trasformazione del liberalismo (ritenuto culla del capitalismo), sostenendo una necessaria ridistribuzione della fiscalità dal capitale verso il lavoro, dai pensionati che hanno accumulato grossi patrimoni verso le nuove generazioni, dall’assistenzialismo verso una più mirata azione nei confronti di chi non guadagna abbastanza.

Il liberalismo, insomma, doveva finalmente recitare un “mea culpa” perché, favorendo troppo i redditi da capitale e gli azionisti a detrimento dei salariati, ignorando o arrivando tardi e imbarazzato sui problemi ambientali, ha dato vita al revisionismo antiliberale radicatosi nei populismi o altri movimenti o partiti.

Lascia esterrefatti, e forse non solo gli attenti e non organici studiosi di economia, incappare in un qualificato economista americano, Branko Milanovic, conosciuto per le sue analisi fortemente critiche (v. in italiano i suoi straordinari “Ingiustizia Globale” o “America 2030”), che in una recente pubblicazione (“Capitalism, Alone”, Harvard U.P.) sembra dirci, quasi rassegnato, che il mondo ormai è quello che è. Il capitalismo ha raggiunto una potenza sinora mai raggiunta, sia per ampiezza geografica, divenendo il modo di produzione dominante, anche in Cina, sia per espansione in settori e modi dove ha creato mercati totalmente nuovi (tempo libero, media sociali, dati personali, affitto invece della proprietà), sia perché è riuscito a mercificare cose mai state oggetto di commercio (cure alle persone anziane, ai bambini, agli animali domestici, piatti cucinati serviti a casa, consegne a domicilio ecc.), trasformando semplici beni (valore d’uso) in merci (valore di scambio).

Rimangono due interrogativi inesplorati e più importanti: il capitalismo non è in crisi, ma si può dire che il mondo non è in crisi? C’è o non c’è un rapporto tra le conseguenze dell’uno (ineguaglianze, sfruttamento risorse umane e ambientali) e le realtà dell’altro?

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