Distruzioni per l’uso

Un sabato a Lugano (coi molinari)

Si possono anche non condividere le idee del centro sociale. Ma difendere l’autogestione fa bene a tutti. Più che ascoltare Travaglio.

L.E.
16 settembre 2019
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Sono le due del pomeriggio e il sole picchia come un fabbro, dalle parti di Cornaredo. Sullo sfondo c’è la vecchia centrale termica, di quelle che all’inizio del secolo scorso si costruivano con grandi archi e ampi finestroni, come cattedrali del progresso. Qui sarebbe potuto sorgere uno di quei centri sociali che si vedono a Berlino o a Zurigo; e invece adesso le vetrate sono sigillate da pannelli neri, neanche ci fosse un coprifuoco: ma gli scoppi sono al massimo quelli dei popcorn, dato che si tratta dell’ennesima, banalissima multisala.

Lì davanti sta per partire il corteo dei “molinari”, che rivendicano il loro spazio autogestito e rischiano di essere scacciati da un ex Macello nel quale si sono inventati di tutto. Con molti di loro ho ben poco da spartire: quando vedo tatuaggi di Lenin e bandiere venezuelane col volto di Maduro, mi torna in mente Raymond Aron: “L’homme est un être raisonnable, mais les hommes le sont-ils?”. Ma queste sono questioni secondarie, come lo è la mia simpatia per le frange più anarchiche e libertarie (“Da Pedrinate ad Olivone un solo grido: autogestione”, sta scritto sulla schiena di un tizio davanti a me; vien subito voglia di berci una birra). Il punto principale è più profondo, per quel che ne capisco: la storia del Molino è composta di persone che hanno fatto crescere sul più arido dei terreni concerti, attività teatrali, danze, dibattiti, progetti di aiuto sociale e umanitario. Il tutto chiedendo poco o nulla alle ‘autorità’, e dunque fornendo una delle rare alternative alla centralizzazione degli eventi e delle attività culturali imposta dal Municipio. Anche per questo piacciono perfino a un liberale come me: perché anche se mi paiono spesso fanatici dell’ultrasinistra, il loro modo di fare ‘cultura’ – o anche solo divertimento: e arrogatevi poi voi il diritto di tracciare la differenza – si sottrae alle morse di una città nella quale anche per disegnare un murale si chiede il permesso (“Non c’è peggior schiavo di chi si crede libero”, scrisse Goethe).

A un certo punto il corteo parte, e la prima cosa che mi trovo davanti è un concessionario d’auto di lusso che ha lasciato i suoi modelli esposti sulla strada. “Ahia”, penso, memore di vecchi tafferugli sulle strade bolognesi e pisane: “Qua sono parabrezza che saltano”. Invece, niente. Il corteo procede pacifico, fra canzoni di lotta e bimbi che giocano e fanno le bolle di sapone. Si vede gente di tutte le età. È perfino difficile trovare una cartaccia o una bottiglia per terra: ognuno pare voler dimostrare che ‘antagonisti’ non significa teppisti. Il passaggio più bello è dalle parti dei palazzoni di Pregassona e Molino Nuovo, dove alcuni vivono in condizioni teoricamente inammissibili in Svizzera; gli oratori del corteo salutano la popolazione, dalle finestre fanno capolino i sorrisi dei non-patrizi: con la fotocamera del natel inquadro il volto di due bambini neri, e loro mi salutano con lo sguardo gentile di chi non vuole offendere un minchione.

Quando arriviamo a via Monte Boglia, succedono quelle due o tre sciocchezze che i portalini accodati alla Lega ingigantiranno a dovere: un paio di mortaretti, qualche fumogeno, due dozzine di uova. I più fanatici invitano la folla ad alcuni slogan imbecilli: “Norman Gobbi pezzo di merda”, “Gobbi a testa in giù”. Saranno poche decine su quasi mille, quelli che gli danno retta. L’enorme contingente di polizia segue da lontano, per evitare scontri inutili: e in questo fa un buon lavoro. In generale, si tratta di una parentesi breve e secondaria in un corteo lontanissimo dagli stereotipi sulle ‘zecche’ e il teppismo.
Io poi, dopo il passaggio su Monte Boglia, devo scappare. Mi aspetta un incontro con Marco Travaglio, che al Lac ribadirà un’idea di giornalismo che non mi piace: robespierriana, manettara e ora pure grillina. Mi fischia in testa Guccini: “Ma i moralisti han chiuso i bar, e le morali han chiuso i vostri cuori e spento i vostri ardori”. Penso che le parole a volte sono sampietrini, come quelli che NON ho visto volare al corteo. E fra i due potenziali manicheismi, preferisco quello molinaro.

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