Commento

Il buono, il brutto e il mafioso

Ode a 'Don Favino', boss dei due mondi nell'Italia al bivio, in un film che racconta i cattivi e ci ricorda gli eroi

'Mi aspettavo il ruggito del leone, ho sentito lo squittio di un topo'
12 settembre 2019
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Al cinema sono rimasti i cattivi, forse perché dei buoni sappiamo tutto. Anche dei belli e dei dannati sappiamo tutto; e dei belli&dannati insieme, dei perdenti, di gioventù bruciate, figlioli prodighi e redenti, anche a fatica, anche invano. Pure del filantropo Bruce Wayne sappiamo tutto e non è morbosità se adesso, più che sapere come se la passa Batman, ci incuriosisce l’esaurimento nervoso del Joker, cabarettista frustrato nella Gotham City del 1981 in cerca di vendetta (l’artista fallito, come il ‘Mummy doesn’t love me’, potenziali leoni da tastiera).

Il cinema italiano, che i due buoni dell’antimafia li aveva raccontati più volte e con facce diverse, non riuscendo a farci affezionare agli attori più che alle immagini d’archivio (tanto schivo l’originale, tanto, troppo Placido Michele, per prendere un Falcone a caso), ora racconta la storia di un cattivo, Tommaso Buscetta detto ‘Don Masino’, pentito a modo suo, uomo d’onore a modo suo, forma alternativa di redento resa probabilmente immortale da Pierfrancesco Favino. In tutte le sale da oggi (ne parliamo a pagina 17) c’è l’ennesima riscrittura di una storia tutta italiana, una confluenza di spy, love e crime story – il film di mafia – che ancora non ha un appellativo tutto suo (c’è lo spaghetti western, non c’è il cannolo-story, ma solo generici ‘drammatico’ o ‘gangster’ applicabili a tutti indistintamente, dal ‘Padrino’ in tutte le sue parti al resto). ‘Il Traditore’ è la storia del più noto dei pentiti di mafia; è un film che non giudica, un film in cui nulla è mitizzato, né la credibilità del protagonista, tantomeno la qualità del suo pentimento; il boss dei due mondi non è più o meno di quel che fu in vita, nulla di più di un capolavoro d’interpretazione intorno al quale ruota l’antico meccanismo di capi che danno ordini e soldati semplici che li eseguono (Buscetta fu soldato, perdonerà chi gli uccise un figlio; non il mandante che gli uccise l’altro).

Il film è, soprattutto, l’occasione per rivivere il più grande processo al malaffare mai celebrato, un interminabile ‘Giorno in Pretura’ iniziato nel febbraio dell’86 sotto le luci sempre a giorno dell’aula-bunker dell’Ucciardone, carcere borbonico di Palermo (il ‘Grand Hotel Ucciardone’, come lo chiamavano i boss costretti a pernottarvi), una struttura ottagonale a prova di missile voluta in fretta e furia da Giovanni Falcone perché nessun altro posto al mondo avrebbe potuto ospitare l’ira di quasi cinquecento tra padrini e affiliati, e relativi avvocati. Nel film di Bellocchio, alcune fasi chiave di quel processo sono ricostruite con la cura di un presepe vivente e riportano in vita quella gabbia di matti dalla quale la tv mostrò che faccia avesse mai quella mafia “che è solo un’invenzione giornalistica” (oggi è facile, i boss hanno una pagina social), svelandone le insofferenze, gli isterismi, i deliri di onnipotenza di chi, ‘uomo d’onore’, vedeva messi in discussione in pubblica piazza l’uomo e l’onore.

Dietro ai ‘cattivi’ del ‘Traditore’ scorre l’Italia al bivio che ha scelto di sacrificare i propri eroi; davanti, sfila una mafia eccessiva, ridondante e plateale che non c’è più; nel senso che non è più sotto i nostri occhi. Ce la descrivono, oggi, istruita, integrata, visibile, comunicativa, in giacca e cravatta (un po’ come Buscetta, un anticipatore) e non più in cardigan sdrucito e bottoni finta pelle. Insomma, c’è ma non si vede, malgrado l’idea di chi un giorno disse “I nonni hanno sconfitto il nazismo e il fascismo, i genitori hanno sconfitto il terrorismo e il brigatismo, i nostri fratelli più grandi hanno visto piegata la mafia”, estratto da una cosa intitolata “Il mio discorso dopo gli attentati di Bruxelles”, più il manifesto elettorale di un aspirante statista che la convinzione che la mafia sia davvero acqua passata.

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