Commento

Resistere, resistere, resistere. Ma per cosa?

Francesco Saverio Borrelli, celebre per il suo appello che difendeva l’indipendenza della magistratura, è scomparso sabato scorso all’età di 89 anni

Francesco Saverio Borrelli (Keystone)
22 luglio 2019
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Come sulla linea del Piave: “Resistere, resistere, resistere”. Erano già trascorsi 10 anni dalla più grande inchiesta penale della storia italiana quando Francesco Saverio Borrelli lanciò nel 2002 il suo celebre appello per difendere a denti stretti l’indipendenza della magistratura. Sei mesi prima Silvio Berlusconi stravinceva le elezioni raccogliendo il consenso di un italiano su due.

Il magistrato, scomparso sabato scorso all’età di 89 anni, era ben cosciente che il consenso popolare per il team di Mani pulite era ormai in declino. Più tardi confessò i suoi dubbi ponendosi il doloroso e ineludibile interrogativo “se fosse valsa la pena di buttare all’aria un mondo per poi cascare in quello attuale”. Quando nel 1992 l’ingegner Mario Chiesa, esponente del Psi, presidente del Pio Albergo Trivulzio e possibile futuro sindaco di Milano, fu pizzicato con in tasca la tangente da 7 milioni nessuno poteva immaginare che quell’arresto avrebbe portato a un ribaltamento politico senza precedenti.

Borrelli e il suo dream team di magistrati, tra cui Gherardo Colombo, Gerardo D’Ambrosio e il focoso e spesso controverso Antonio Di Pietro piegarono un sistema politico intrinsecamente corrotto: nella rete degli inquirenti finirono personalità di spicco quali il democristiano Arnaldo Forlani e naturalmente Bettino Craxi, socialista amico di Silvio Berlusconi che da quello sconvolgimento istituzionale trasse il massimo vantaggio. Abile quanto spregiudicato il patron di Fininvest si scagliò a suo turno contro le “toghe rosse”, consapevole che il prossimo a rischiare di cadere sarebbe stato lui.

Un avviso di garanzia lo raggiunse in pieno summit Onu sulla criminalità. Il cavaliere estrasse subito l’artiglieria pesante: attacchi ripetuti contro la magistratura, e raffica di leggi che minavano i processi per corruzione. Tangentopoli aveva messo fine alla prima Repubblica. Nacque dal trasformismo forse più italiano che propriamente berlusconiano la seconda, molto simile a quella affossata da Mani pulite.

Nel commentare la morte di Borrelli, Bobo Craxi, figlio dell’ex premier, parla del magistrato scomparso come della “punta di diamante di un colpo di Stato” aggiungendo che l’Italia uscita da Tangentopoli è peggiore di quella che c’era prima. Se la prima affermazione risponde alla ruggine anti Mani pulite del figlio dell’uomo simbolo della corruzione di quegli anni, la seconda potrebbe certamente essere in parte condivisibile.

Il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica appare oggi come il puro prodotto Doc del gattopardismo politico. Quel “tutto cambia perché nulla cambi” riassume perfettamente la natura di un sistema che ha generato l’attuale populismo. Tra prescrizioni, amnistie, depenalizzazioni (oltre a diversi proscioglimenti) Silvio Berlusconi è riuscito a scontare solo una lieve pena presso i servizi sociali per la condanna a 4 anni di detenzione nel processo Mediaset.

Mentre i recenti scandali finanziari che vedono coinvolto il partito più gettonato della Repubblica non sembrano intaccare la popolarità del leader politico più in vista, Matteo Salvini. La truffa dei 49 milioni ai danni dello Stato, le pesanti vicende giudiziarie del sindaco di Legnano o del presidente della Regione Lombardia, l’avviso di garanzia a Gianluca Savoini, braccio destro di Salvini, per i presunti finanziamenti del Cremlino alla Lega, ci riportano dritti dritti alla prima Repubblica. Con una sostanziale differenza: la morale pubblica sembra evaporata e oggi più che l’indignazione, a dominare sembra essere l’indifferenza degli elettori.

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