Commento

Uber e la virtualizzazione assoluta del lavoro

La domanda da porsi è se l’Uberismo è il modello chiamato a sostituire il tradizionale rapporto datore di lavoro–impiegato e quali potrebbero essere le sue conseguenze

Il paradigma 'Uber' non è esento di tensioni con il modello esistente, cioè con i taxi. Guarda le immagini delle proteste in tutto il mondo. Qui i sindacati in piazza a Buenos Aires, Argentina
6 giugno 2019
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Sarà proprio l’Uberismo la nuova forma della relazione tra capitale e lavoro, in questi tempi di algoritmi e intelligenza artificiale? Il contenuto lo si conosce: una relazione lavorativa virtuale tra Uber, il gigante americano del servizio di trasporto privato via app, e i “suoi” autisti considerati liberi professionisti. Una modalità di ingaggio tutta digitale che si aggiunge alle amicizie social, l’informazione sul web e gli acquisti online. Un processo di virtualizzazione assoluta dell’essere umano che, andando a toccare la sfera del lavoro, merita qualche considerazione più seria.

La storia insegna: il modo di appropriarsi del lavoro altrui è, secondo il materialismo storico, l’elemento determinante di ogni modello di società. Fu la schiavitù nel mondo antico la base oggettiva su cui poggiava l’espansione dell’Impero Romano. E i servi della gleba nel Medioevo non erano altro per i signori feudali. Già nel mondo moderno, l’uomo libero diventato salariato è rimasto pure lui al centro del processo di ottenimento del plusvalore sul quale si cimenta il sistema socioeconomico dei nostri giorni. All’interno dell’era capitalista ci sono tuttavia delle fasi diverse: si parla spesso di Taylorismo, Fordismo, Toyotismo… Benjamin Coriat tracciò con lucidità la relazione tra l’organizzazione del lavoro all’interno del mondo industriale e il tipo di Stato e modello di sviluppo economico che viene a configurarsi in ogni tappa: Taylor è riuscito a espropriare gli artigiani del loro ‘savoir-faire’, riducendo l’attività produttiva a una serie di semplici movimenti facilmente riproducibili. Erano i tempi dello Stato ultraliberista del ‘laissez-faire’. Il Fordismo introdusse la catena di montaggio, l’intera fabbrica come unità ininterrotta di produzione, un flusso continuo rispecchiato dall’accesso universale al consumo grazie all’intervento del Welfare State. Il modello giapponese degli anni 80 nasce già nei tempi in cui il capitalismo finanziario ha preso il sopravvento: è l’industria del ‘just in time’. Fabbriche intere dedicate a produrre delle parti di un insieme che è solo visibile agli occhi, non più degli operai, ma del padrone.

La grande crisi del 2008 in qualche modo insegnò ai geni della finanza che un passaggio dalla sfera dell’economia reale rimane “purtroppo” indispensabile: il denaro che crea più denaro senza sporcarsi a produrre qualcosa è un’illusione che dura poco. E allora hanno ritrovato nella ‘gig economy’ una via di uscita: d’altronde la digitalizzazione di ogni ambito delle nostre vite rende il tutto piuttosto semplice. Perché continuare ad assumere del personale, garantendo salari e prestazioni sociali tramite quella ‘vecchia’ forma del salariato quando dall’altra parte il mercato non garantisce nulla agli investitori che rischiano il proprio capitale ogni volta che fanno business? Sembra questa la domanda che si pongono i grandi ‘entrepreneurs’ del web. Nel mentre la politica stenta tra l’osservazione passiva del fenomeno e un qualche intervento che inizi a fissare dei paletti a questa modalità estrema di precariato (per ora tramite sentenze di tribunale, come quella di Losanna che il mese scorso ha attribuito a un ex collaboratore dell’app un’indennità per disdetta abusiva, riconoscendogli di fatto lo statuto di dipendente).

In realtà la domanda da porsi a questo punto è se l’Uberismo sia davvero il modello chiamato a sostituire il tradizionale rapporto datore di lavoro-impiegato e quali potrebbero essere le sue conseguenze: per le persone che svolgono questo tipo di attività e, più in generale, per una società che guardando al futuro continua a interrogarsi sul divenire del mondo lavorativo nell’era digitale.

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