Distruzioni per l'uso

I patti faustiani e la via per la schiavitù

Dove si cerca di unire i puntini fra Morisoli, Madame Bovary, Guccini, Hayek, il Liechtenstein e il Vietnam (più o meno)

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1 aprile 2019
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Spesso il fascino dei vincitori conquista anche i vinti. Oppure fa semplicemente comodo saltare sul carro in corsa, chi lo sa. Fatto sta che in epoca di populismo imperante nemmeno i presunti difensori della democrazia liberale – nel senso più ampio possibile della categoria – si fanno problemi a scimmiottarne la retorica, o addirittura a stringervi improbabili alleanze.

Bovarismi

In Italia Guido Vitiello parla giustamente di “bovarismo”, e illustra bene il livello di dissociazione mentale delle novelle Emma: “I liberali innamorati di Rodolphe-Salvini tentano di ravvivare con il mantice della retorica l’antica fiamma del 1994: rivedono in lui l’outsider inviso alle burocrazie e alle solite cerchie, il burbero schietto che rompe il cerimoniale della correttezza politica, il paladino delle partite Iva e del ceto produttivo stanco delle tasse, il tribuno democratico che capisce quel popolo che la sinistra salottiera disprezza”. Dimenticando, naturalmente, “il razzismo sbandierato, le balordaggini sulla sostituzione etnica, la libidine di forca, l’idea di una convivenza civile sorvegliata dal manganello e dall’aspersorio – due strumenti che ai liberali non piacevano granché, un tempo”.

Non che in Ticino vada molto meglio. Basta leggere in filigrana una campagna elettorale nella quale il Plr scimmiotta spesso i temi leghisti, dal “Ticino più svizzero” alla sibillina promessa di “evitare la competizione fra mercati del lavoro diversi fra loro”, passando per le abiure al novantesimo quando si parla di accordi con l’Ue. (Quanto alla democrazia liberale, una recente lettera dei liberali luganesi ricorda: “NOI, e solo NOI ne siamo sempre stati i fautori e i veri tutori”. Le maiuscole sono le loro, ovviamente; invece l’approccio al pluralismo democratico si direbbe ispirato dai pasdaran, i “guardiani” della rivoluzione khomeinista.)

Patto faustiano

A essere più espliciti di tutti sono però i Liberalconservatori, strano ibrido unito in un patto faustiano con l’universo ultranazionalista (leggi: Udc e Lega). Nel suo libro-manifesto – ‘Liberalconservatorismo tra buona vita e vita buona’ – Sergio Morisoli compie il tentativo più articolato di tenere insieme l’animaccia della destra reazionaria coi nobili ideali del liberalismo. La tesi di fondo, se ho capito bene, è che la libertà di mercato può, anzi deve essere coniugata alla conservazione delle radici – cristiane, ovviamente – contro i flagelli “dell’identità smarrita, della cultura relativista, della democrazia in affanno, dello statalismo inarrestabile e del capitalismo rinnegato”. Mancano solo le cavallette.

Ovviamente si può ribattere che in nome dell’identità si fanno anche i pogrom. O che l’opposto del relativismo è l’assolutismo, ma così si rischia di ricadere in estremizzazioni speculari a quelle dell’autore. E poi resteremmo impantanati in ragionamenti astratti. Mi preoccupa di più quello che Morisoli ha ribadito durante una recente presentazione: “Sono provvisoriamente favorevole al sovranismo, al populismo, al protezionismo”. Provvisoriamente, sì, ma intanto si augura che sia il populismo a trovare una risposta “alla politica anonima e astratta che cancella le identità”, al “sempre-prima-gli-altri” e ai “tecnocrati di un’élite globale” dimostratasi fallimentare.

Lo chiamavano il Frate

Ora: non è che mi spaventi cosa vuol fare Morisoli, cui va almeno il merito di avere scritto un testo stimolante, e che comunque non mi pare molto più pericoloso del Frate di Guccini (“parlava in tedesco e in latino / parlava di Dio e Milton Friedman”). Mi preoccupa, semmai, il fatto che sempre più politici ed elettori condividano con meno consapevolezza un andazzo simile, col rischio di buttar via insieme all’acqua sporca il bambino della democrazia liberale; che poi è l’unica vera democrazia, fino a prova contraria.

Perché quando ci si balocca con l’identità, le radici, i ‘nostri’, raramente finisce bene. A livello nazionale significa flirtare con un’idea di Stato etico, ubriaco di moralismi e aggrappato a una concezione mistica del ‘popolo’; quelle caratteristiche di “paternalismo e nazionalismo” che per il liberalissimo Friedrich Hayek lastricano “la via per la schiavitù”.

Dal Liechtenstein al Vietnam

Quanto al mondo là fuori, non occorre essere paranoici per temere che questo ripiegamento generi divisioni e conflitti. Ci si illude di risolvere i propri problemi scindendosi in tanti microcosmi identitari. “Un’Europa di mille Liechtenstein”, per dirla con le parole di Paolo Pamini (chissà perché mi viene in mente l’incendiaria retorica di Che Guevara, quando invocava “due, tre, molti Vietnam”). Anche in questo caso, i liberalconservatori non sono certo i soli a fumare vicino alla polveriera. E sì che fanno in fretta, i confini, a diventare trincee.

Se poi l’illusione è quella di “conservare” e “difendere” identità e benessere, non c’è nemmeno bisogno di lucidare i busti dei padri liberali. Dovrebbe bastare la Realpolitik a farci passare certe fregole: quell’Europa dei Puffi, in cui ciascuno sventola la sua bandierina, nulla può contro superpotenze che liberali e democratiche non sono mai state. Era stato un problema con la vecchia Germania, lo sarà con la nuova Cina.

Nessuno nega che la costruzione europea e la globalizzazione scontino un deficit di democrazia. Attenzione però, veri o presunti liberali, a non negoziare la riforma del “sistema” con gli spaccavetrine del nazionalpopulismo. Anche il democristiano von Papen pensava di avere “assunto” Hitler sotto le insegne della democrazia di Weimar. Passerò per apocalittico, ma non vorrei che un domani il leghista di turno pronunciasse le stesse parole di quel marine dopo un attacco al napalm: “Per salvare il villaggio, abbiamo dovuto distruggerlo”.

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