Commento

Una finta guerra che qualcuno vinse

Si rassegnino Cesare Battisti e i molti che lo elevarono al rango di perseguitato politico, dipingendo l’Italia come una dittatura sudamericana

26 marzo 2019
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Non era una guerra. Si rassegnino Cesare Battisti e i molti – in Italia e altrove – che lo elevarono al rango di perseguitato politico, dipingendo l’Italia come una dittatura sudamericana: quello dei cosiddetti “anni di piombo” fu un passaggio tragico e criminale, ma non una guerra.

Ma nella valanga di improperi che ha investito Battisti per aver detto di avere ritenuto “allora” di “essere in guerra” è facile riconoscere un fondo di ambiguità, ignoranza storica e malafede. A definire in termini bellici un conflitto sociale che prese anche una forma violenta grave ed estesa fu infatti anche una classe politica interessata soprattutto a delegittimare un fermento che ne minava l’intoccabilità. E qui non sono tanto in discussione le controverse “leggi speciali”; misure, per vituperate che siano, a cui tutti gli stati ricorrono nelle fasi di stress acuto come quegli anni. Piuttosto, va ricordato che la deformazione culturale e politica fu quella dell’arroccamento di un sistema politico, che della “guerra al terrorismo” fece una foglia di fico per coprire le proprie vergogne. Con il concorso sciagurato del “partito armato”, d’accordo.

E non solo di questo si tratta. Se proprio si vuole parlare di guerra, pur in un’accezione molto estesa, allora va detto che primi a teorizzare e praticare una “guerra non ortodossa” – per imporre in Italia uno stato autoritario, cementarne la fedeltà atlantica e sventare l’avvento delle sinistre al potere (una tipica paranoia anticomunista) – furono semmai gli ambienti del fascismo residuale associati ad apparati dello stato, che a lungo godettero di protezione e in qualche misura anche di incoraggiamento dalle più alte cariche istituzionali. Si ripercorrano la genesi e la storia giudiziaria della strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969) collocandole nelle drammatiche vicende dei tre decenni successivi per averne conferma: il lungo lavoro di occultamento delle responsabilità dirette e indirette procedette – punteggiato di altri massacri – parallelamente alla parabola ascendente e poi alla disfatta del terrorismo “rosso”. Quest’ultimo sconfitto (o forse “estinto”) militarmente, in sede giudiziaria, e marchiato d’infamia; i colpevoli riconosciuti di Piazza Fontana mandati assolti e non più processabili, come ammise sconsolato il giudice Guido Salvini.

Questo non giustifica niente e nessuno. Del resto, le avanguardie del “partito armato” non necessitavano di argomenti, bastando loro uno sventurato accecamento ideologico. È solo che se davvero si vuole parlare di guerra è bene guardare da che parte arrivano i colpi. Quasi mai il solo colpevole è l’ultimo a venire preso.

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