Commento

I nostri e i loro

Tralasciamo la contabilità dei morti ‘nostri’ e ‘loro’.

Keystone
16 marzo 2019
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Tralasciamo la contabilità dei morti ‘nostri’ e ‘loro’. Non soltanto per non assecondare l’ispirazione criminale che arma la mano di credenti e suprematisti, di una fede o di una “razza”. Ma soprattutto perché è la distinzione tra ‘nostri’ e ‘loro’ a essere indecente, a meno di assumere su di noi anche la colpevolezza del ‘nostro’ che per ultimo ha sparato.

Dunque è meglio prestare attenzione al vocabolario che dà forma ai pensieri omicidi di chi imbraccia un mitra e fa fuori decine di persone in preghiera. In quello di Brenton Tarrant, l’autore della strage di Christchurch in Nuova Zelanda, ricorrevano i nomi di Anders Breivik o Luca Traini, o parole come ‘invasione’. Lepanto, addirittura.

Che la fama del neonazista Breivik (77 persone uccise nel 2011 a Utoya, in Norvegia) sia giunta fino agli antipodi, si può capire, vista la notorietà planetaria della sua impresa; che un pistolero australiano invasato conosca anche il nome di Traini – l’ex candidato della Lega, che nel 2018 sparò a Macerata contro un gruppo di ignari immigrati africani – significa invece che la rete del suprematismo si è assicurata una copertura planetaria e che non necessita ormai di organizzazione e strutture. Tal quale quella di cui si giova l’informe, dannata ideologia del jihadismo globale.

La sola differenza con gli autoproclamati “soldati di dio” è che nel caso di stragi come quella di ieri non c’è un Isis pronto a mettere il proprio marchio sulla mattanza. Anzi (e in questo i “nostri” sono sì differenti) se qualcuno corre, corre più lontano che può dal luogo fisico e semantico della strage, per non rischiare di essere confuso con i suoi autori o di vedersi interrogato sulla imbarazzante affinità del suo e dei loro discorsi. Invasione di qui, invasione di là.

Non so, bref, come ci sentiremmo noi, se – come viene regolarmente preteso dai “musulmani” – ci venisse richiesto di condannare l’assassino e i suoi ispiratori, spiegando ogni volta che no, non c’entriamo. Senza esserne così sicuri, oltretutto, e senza che questo abbia un senso.

 

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