Italia

E allora il Pd? Zingaretti e l’opossum progressista

Il nuovo segretario deve ricostruire un partito, partendo da nuove alleanze e superando il divismo renziano

Il fratello di Montalbano
(Keystone)
5 marzo 2019
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“Quando si sente minacciato (cosa che avviene piuttosto spesso) l’opossum ha una tecnica di difesa tutta particolare: si sdraia su un fianco a bocca aperta, lingua penzoloni e occhi girati all’insù. Poi inizia a rantolare. L’eventuale predatore, convinto che la ‘vittima’ sia gravemente ammalata (o peggio avvelenata), spesso si allontana”. Viene dalla nostra pagina Wwf la migliore descrizione dell’ultimo anno di centrosinistra italiano: periodo trascorso nell’agonizzante attesa di un nuovo leader, mentre il predatore gialloverde occupava tutti gli spazi istituzionali e politici.

Un anno dopo, l’opossum pare rialzarsi: 250mila persone scendono in piazza a Milano contro il razzismo salviniano, circa un milione e 600mila elettori animano le primarie del Pd. Segno che forse, per una forza progressista, un po’ di spazio c’è ancora.

Vince Nicola Zingaretti: uomo d’ordine di Botteghe Oscure, Mr. Wolf abituato per sua stessa ammissione a “spalare merda” (sic) lontano dai riflettori, già capace di vincere in Lazio mentre il partito affondava. Inutile girarci attorno: con lui si chiude la stagione renziana, il Pd dell’uomo forte e delle rottamazioni. Torna una sinistra forse un po’ più sinistra, ma soprattutto più allineata alle tradizioni di quell’Ulivo che cercava alleanze ampie e dialogo coi corpi intermedi.

Non è ancora una vittoria. Non è nemmeno un pareggio: l’ago dei consensi pende ancora nettamente verso il governo, nonostante un’Italia mai così fragile, povera e isolata; evidentemente la strategia di incolpare gli altri per le proprie incompetenze – “e allora il Pd?”, ma anche Bruxelles e i migranti – funziona ancora. Per ora i Dem hanno solo “girato la clessidra” per guadagnare tempo, come nota Bucchi su ‘Repubblica’.

Zingaretti sa che da segretario lo aspetta una vita da mediano: la posizione logorata del Pd, le divisioni intestine e il suo stesso profilo non gli permettono di imporre una leadership volitiva in stile Renzi. Né si direbbe che la cosa gli interessi. Probabilmente ha capito che ci vorranno anni per rimettere in forma il corpaccione di un partito indebolito dai personalismi e dalla perdita di una base.

Per riconquistare consensi, una tattica di breve periodo potrebbe essere quella di accostarsi alla narrazione dei Cinquestelle, che tanti voti ha sottratto al Pd; e magari prepararsi, in caso di rottura del governo, a formare proprio coi grillini un’alleanza di centrosinistra. Sarebbe un errore: significherebbe riproporre quei caratteri di giustizialismo, assistenzialismo e statalismo che indeboliscono da sempre la credibilità della sinistra come forza di governo. E poi si rischierebbe di essere fagocitati dai cannibali di Casaleggio.

D’altro canto è finita anche l’era del Pd come ‘grande tenda’ blairista, sotto la quale si fanno con appena più ritegno le stesse cose del centrodestra. Il trionfo di un esecutivo populista è figlio (anche) della crisi di quel modello sociale ed economico, e nessuno più dei progressisti è chiamato a trarne le dovute conseguenze. Per questo i democratici – intesi anche solo come coloro che si oppongono all’autoritarismo dei vicepremier e alla dittatura dei clic – dovranno ripensare un welfare generoso ma adeguato alla ‘nuova’ economia, un europeismo che non accetti supinamente l’austerity, politiche industriali e fiscali che contrastino il laissez faire e le disuguaglianze senza inciampare nel dirigismo. Più facile a dirsi che a farsi, come dimostrano le difficoltà dei loro consanguinei da Washington a Bellinzona. Ma quando i nodi di questo governo verranno al pettine, forse imporre una visione alternativa sarà più facile di quanto oggi non sembri. Intanto è già molto non doversi fingere morti.

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