Commento

Tav, l’analisi costi-benefici puzza (di gasolio)

Se ne dovrebbe dedurre che qualsiasi spostamento da gomma a rotaia è controproducente. Alla faccia dell’ambiente

(Keystone)
15 febbraio 2019
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Delle due, l’una: o spostare il traffico dalle strade alle ferrovie danneggia gravemente il benessere dei cittadini, conclusione che smentisce decenni di ricerche sul tema; oppure l’analisi costi-benefici sulla Tav Torino-Lione non sta in piedi.

A prendere per buona la relazione del professor Marco Ponti, noto anti-Tav, la questione non riguarda soltanto la Val di Susa: qualsiasi trasferimento di merci e persone su rotaia è un santo che non vale la candela. E questo perché ogni tonnellata di Co2 che risparmio nello spostamento vale sì 90 euro di benefici per l’ambiente, ma fa perdere allo Stato 400 euro di accise sul carburante. Una perdita netta di 310 euro a tonnellata, così che il costo complessivo aumenta proporzionalmente al successo dell’opera. Inoltre la commissione ha deciso di conteggiare fra i costi del progetto anche i mancati pedaggi incassati da Autostrade (una società privata, la stessa duramente attaccata dal ministro per le Infrastrutture Danilo Toninelli dopo il crollo del ponte Morandi a Genova).

La natura del ragionamento lo rende applicabile altrove, e quindi potrebbe valere anche per le grandi opere paventate dal MoVimento 5 Stelle, finora noto per la sua agenda assai ecologista: alta velocità fra Roma e Pescara, Catania e Palermo, Roma e Matera. In teoria nulla impedisce di adottare un calcolo analogo, mutatis mutandis, perfino per Alptransit. Meglio i camion, e amen.

Se tutto ciò vi suona paradossale, è perché c’è il trucco. Quei 400 euro/ton di accise e pedaggi sono trasferimenti di risorse: soldi che lo Stato perde, ma il guidatore risparmia. Un gioco a somma zero che nulla toglie al benessere collettivo. In un’analisi costi-benefici – che valuta l’impatto sociale di un’opera, e non semplicemente quello contabile per le casse pubbliche – secondo molti esperti sarebbe più opportuno conteggiare solo i costi sociali. E su questo le linee guida europee sono molto chiare.

A ciò si aggiunga la confusione fra costi italiani e francesi, e poi le penali per l’abbandono del progetto e i costi per la messa in sicurezza della vecchia linea, che secondo molti osservatori sono stati sottostimati. Insomma: quei 6-8 miliardi in passivo (a seconda degli scenari) potrebbero anche non esistere.

Tanto che uno dei commissari, l’ingegner Pierluigi Coppola, si è rifiutato di sottoscrivere la relazione e ha manifestato “forti perplessità sul metodo usato”. Imputando all’Italia costi più che dimezzati. Coppola, nella sua controrelazione, ha addirittura stimato benefici netti fra i 400 milioni e i 2.4 miliardi di euro.

Ogni analisi costi-benefici ha i suoi limiti e le sue lacune: prevedere cosa succederà da qui a trent’anni non è una scienza esatta. Sull’importanza strategica della Tav è poi più che legittimo avere perplessità, nonostante il rischio (anche politico) di ritirarsi a un metro dal traguardo. Raramente, però, capita di assistere a una valutazione così bislacca delle ricadute ambientali del trasporto ferroviario. Quando un’analisi finisce per sconsigliare, di fatto, qualsiasi progetto che sposti uomini e merci dalle strade alle rotaie, è legittimo chiedersi che tipo di pressioni politiche ci siano dietro (Ponti, che evidentemente ha imparato dai suoi referenti politici, si è subito difeso dando semmai la colpa al “pensiero unico” ecologista imposto dalla “lobby ferroviaria, fortissima anche a Bruxelles”.) Il dubbio è che ancora una volta un governo italiano abbia scelto di truccare le carte pur di vincere l’ennesima mano. Alla faccia del cambiamento.

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