Commento

Ex funzionario condannato, perché non si sono fatti i nomi

La decisione, mostra come la giustizia sia diversa dalla vendetta. Che è una tentazione umana, ma che come società bisogna contrastare, superare

Ti-Press
13 febbraio 2019
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“Fuori il nome!”, in quante occasioni si è letto questo incitamento sui social network subito dopo la recente sentenza di condanna per coazione sessuale dell’ex funzionario del Dipartimento sanità e socialità. E sempre sui social network, quel nome da qualcuno è stato fatto. Portando molti a chiedersi perché gli organi di stampa questa identità non l’avessero resa pubblica. Ebbene, c’è un motivo per cui la nostra testata, così come tutte le altre, ha agito in questo modo. La materia è regolamentata per legge. L’articolo 74 capoverso 4 del Codice di procedura penale prevede che, quando è coinvolta una vittima e il dibattimento non è pubblico, la divulgazione della sua identità o di informazioni che possano portare a riconoscerla (leggasi, in questo caso, il nome dell’imputato) è prevista solo se la collaborazione della popolazione è necessaria per le indagini o se la vittima stessa vi acconsente.

Il dibattimento è stato a porte chiuse. Colpisce, soprattutto noi che come cronisti abbiamo avuto la possibilità di seguire i due giorni di processo, la dimensione umana della scelta delle tre accusatrici private di non divulgare il nome dell’ex funzionario. Una scelta più forte delle lacrime versate, presa in totale libertà dopo essere state informate su tutto dal loro avvocato, vale a dire sui pro e sui contro di una o dell’altra scelta. Per deontologia, il nome non è stato pubblicato dai media. La legge e la libera scelta delle tre persone coinvolte direttamente in questa lacerante storia sono motivazioni che appaiono più che sufficienti, quindi. Supportate anche da un concetto che non può, non deve essere secondario: le leggi sono sempre state una risposta all’impossibilità di gestire le situazioni di “pancia”, col solo impulso. Ed esistono con un fine chiaro: dare a un’intera comunità un corpo di regole che valgano per tutti. Non riconoscere questo assunto implica velatamente un autorizzare la giustizia privata, che preoccupa. Perché più che giustizia sarebbe semplice spirito di vendetta. Una tentazione umana, alla quale come società si deve resistere con forza, dominandola, diventando più forti di lei, ribadendo il primato della legge.

Il non pubblicare le identità è tutelare le vittime. Le stesse che hanno chiesto di non rendere pubblico quel nome apparso, invece, sui social. Aprendo un’altra questione non di poco conto. Perché se fare quel nome su un giornale o in televisione avrebbe avuto determinate conseguenze, queste conseguenze non ci sono per chi ha fatto, e diffuso, quel nome su Facebook? Che la ‘piazza virtuale’ sia un posto dove qualcuno si sente autorizzato, con senso di impunità, a seguire comportamenti che non seguirebbe altrove non è una novità.

Cosa è stato messo in campo perché nel mare magnum del web una persona si senta in dovere di seguire quelle regole, quelle leggi che – si spera – segue nella vita pubblica, sociale, lavorativa? Evidentemente non abbastanza, se siamo ancora qui a chiedercelo tra lo stupito e l’allarmato.

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