Commento

La stanca liturgia di Davos

Il Forum economico è camaleontico, ma ogni anno riciccia la solita ricetta: più libero commercio e meno vincoli pubblici

(foto Keystone)
24 gennaio 2019
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È una sorta di liturgia laica che si ripete ogni anno, dà lustro a una già pregevole località alpina; permette a circa tremila selezionatissimi partecipanti di interagire – o almeno così credono – con chi dovrebbe avere le leve del governo del mondo e riunisce per cinque giorni in un unico luogo ministri, capi di governo, responsabili di organismi internazionali, Ceo di multinazionali e centinaia di imprenditori alla legittima ricerca di contatti per alimentare il proprio business. Insomma, al Forum economico di Davos l’élite globale – o ritenuta tale – si materializza e monopolizza l’attenzione mediatica per una settimana.

Quest’anno però i grandi leader politici – da Donald Trump a Emmanuel Macron, passando per Theresa May – hanno dovuto declinare l’invito per motivi squisitamente domestici: chi è alle prese con un’assurda chiusura delle attività governative (lo shutdown statunitense) e chi invece – il presidente francese – proprio non ha voglia di farsi vedere dai suoi cittadini più ‘arrabbiati’ e ‘no global’ sui generis (i ‘gilets jaunes’), in uno dei santuari della globalizzazione economica. Per tacere della premier britannica che deve gestire – non per sua volontà, a onor del vero – un’uscita del suo Paese dall’Unione europea che rischia di essere politicamente caotica e catastrofica dal punto di vista economico.

Fatte queste premesse, ancora una volta il Wef, come è comunemente noto, si è guardato l’ombelico rilanciando le solite ricette che la matrice ideologica dominante impone da un trentennio: più commercio internazionale che vuol semplicemente dire meno vincoli alle attività delle multinazionali e un ruolo meno incisivo dello Stato, se non come regolatore di processi decisi o nati altrove. Affermare che c’è bisogno di una “Globalizzazione 4.0” per “dare forma a un’architettura globale nell’era della quarta rivoluzione industriale” (il tema di quest’anno), vuol dire tutto e il suo contrario, soprattutto in un periodo storico dove stanno emergendo forti tentazioni di chiusura che passano sotto il nome di ‘sovranismo’ il cui portabandiera – il presidente statunitense Trump – fu accolto l’anno scorso con molta deferenza dai delegati del Forum. Gli stessi che l’anno prima avevano applaudito ed eletto a ‘liberale dell’anno’, il presidente cinese Xi Jinping, segretario del Partito comunista solo perché contrario, per ragioni economiche meramente interne (lo slogan ‘America first’ può essere declinato anche in mandarino, ne siamo certi), all’intento del neopresidente Usa di aumentare i dazi sui prodotti cinesi che non è certamente il punto peggiore del suo programma politico. Non una parola di critica sulla sua pessima politica migratoria fu espressa a Davos, ma non mancarono parole di approvazione per la sua riforma di sgravi fiscali che drogò i corsi borsistici tanto che il vanesio e lunatico capo di Stato si spinse a dire che se quell’anno i partecipanti al Wef erano diventati più ricchi, lo dovevano anche a lui.

E quest’anno? Podio e applausi anche per il brasiliano Jair Bolsonaro, degno figlioccio del ‘trumpismo’ d’esportazione. È questa la ‘Globalizzazione 4.0’.

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