Distruzioni per l'uso

Il muro e l’elefante. La narrazione nazionalista fra Trump e Salvini

Il discorso alla nazione di Trump contiene tutti gli ingredienti della comunicazione populista. Ma rispondere coi fatti serve a poco.

Un mondo in bilico sui muri
(Keystone)
12 gennaio 2019
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Tutto il mondo è strapaese. Così – mentre gli scemi del villaggio globale cercano di sezionarlo in mille piccole, ottuse borgate – succede ancora che gli stessi fenomeni si verifichino a diecimila chilometri di distanza. Da una parte dell’Oceano trovi un presidente disposto a paralizzare l’intera amministrazione, pur di mettere un muro fra sé e i messicani; dall’altra un ministro scatena una mezza crisi di governo per bloccare un paio di migranti in mezzo al mare.

In entrambi i casi, la ragione di cotanta testardaggine non si può trovare nei dati di fatto. Lasciar entrare quattro povericristi non minaccia né la sicurezza, né il benessere di una nazione. Le statistiche dovrebbero essere ormai piuttosto chiare; ma non interessano né a loro – che infatti le tacciono o casomai le falsificano – né ai loro elettori. Quello che conta davvero, semmai, è la famosa “narrazione”: l’eccitante favola di un mondo minaccioso e declinante, da salvare eroicamente o alla peggio aggiustare a martellate.

Un caso da manuale

In questo senso, l’ultimo discorso di Trump alla nazione costituisce un esempio da manuale. In meno di dieci minuti vi si trovano concentrati tutti gli elementi della strategia nazionalista: il fatto di presentarsi nelle vesti del Guerriero che ci difende dall’invasore alle porte, per rendere il Paese “più sicuro che mai”; l’evocazione costante della crisi, dell’urgenza (sebbene gli ingressi illegali dal Messico siano diminuiti del 75% rispetto al 2000); l’appello al cuore invece che al cervello, attraverso l’uso di esempi strappalacrime (“La vita di un eroe americano è stata rubata da qualcuno che non aveva diritto di essere qui… Non dimenticherò mai il dolore nei loro occhi… Immaginate se fosse vostro figlio, vostro marito, vostra moglie…”); la cucchiaiata di umanitarismo fasullo (se di “crisi umanitaria” si può parlare è per via dei metodi di accoglienza – ma sarebbe meglio dire di detenzione – e di gestione dei flussi); le invenzioni pure e semplici (il tasso di criminalità dei clandestini è in realtà inferiore a quello dei residenti regolari); la proposta di una soluzione inutile, ma di grande impatto scenografico (la maggior parte delle persone e della droga passa dal mare, dagli aeroporti e dai regolari checkpoint di frontiera, altro che muro). Tutto già visto anche in Europa: l’“invasione”, i porti chiusi, le leggi draconiane, l’informazione terroristica, i “lo dico da papà”.

Cambiare cornice

I risultati elettorali degli ultimi anni dimostrano che per contrastare questa benedetta narrazione non bastano i numeri, le risposte concrete. La stessa razionalità è sopravvalutata finché risponde alle stesse cornici mentali, allo stesso “inconscio cognitivo” imposto dal discorso nazionalista: infilare fatti reali in quelle cornici è come tentare di piantare un piolo quadrato in un buco tondo. George Lakoff, che ha popolarizzato il tema, la spiega così: “Se ti dico ‘non pensare all’elefante!’, penserai all’elefante… La morale per il discorso politico è chiara: quando argomenti contro qualcuno dello schieramento opposto utilizzando il suo linguaggio e le sue cornici, attivi quelle stesse cornici, le rafforzi in chi ti ascolta e indebolisci le tue stesse opinioni” (‘Don’t Think of An Elephant’, Chelsea Green 2014). L’unica è cambiare radicalmente la prospettiva del discorso.
Riguardo alla questione dei migranti, Lakoff prende ispirazione da Obama e suggerisce di puntare sull’empatia, ricordare la sofferenza, la speranza dietro al singolo destino di chi fugge dal suo Paese. In altre parole, spostare l’inquadratura dalla figura dell’occidentale “invaso” a quella del migrante “in fuga”, e di conseguenza evocare ponti al posto dei muri.

Ma quali moderati

Più facile a dirsi che a farsi, certo. Ma l’analisi di Lakoff contiene un’altra intuizione brillante della quale qualsiasi politico (e non solo) dovrebbe fare tesoro: è inutile cercare un “middle ground”, una via di mezzo fra visioni opposte per conquistare presunti moderati, quale che sia il tema in discussione. Quelli che chiamiamo moderati, spiega, sono in realtà “biconcettuali”: persone che per osservare alcuni fenomeni utilizzano cornici nazionalconservatrici, mentre per osservarne altri ne utilizzano di liberalprogressiste. Combinano così “tasselli bianchi e tasselli neri. I tasselli grigi non esistono”. Per farsi sentire, dunque, non ha senso cercare a tutti i costi un malinteso moderatismo: si finisce solo per annacquare il proprio messaggio e scontentare tutti. Lo dimostra il successo dello stesso Trump – un repubblicano atipico, di convinzioni eterogenee, ma capace di dire la sua forte e chiaro su qualsiasi tema.

In un’intervista a ‘Repubblica’ prima delle ultime presidenziali, Lakoff usava parole che a posteriori suonano profetiche: “Non è vero che per vincere bisogna spostarsi al centro: al contrario, se difendi con convinzione i tuoi valori riuscirai sia a tenere i tuoi elettori che a conquistare una parte importante dei cosiddetti biconcettuali. Trump lo ha capito bene. Spero lo comprenda anche Hillary, prima che sia tardi”. Meglio prendere nota.

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