Commento

Prospettive 2019 da rivedere al ribasso

Crescita economica incerta: si entra in una fase di stasi prolungata. Ma non ancora di recessione.

Keystone
3 gennaio 2019
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Non sono solo le controversie commerciali tra Cina e Stati Uniti a mettere un’ipoteca sulla crescita economica. I segnali lanciati dalle principali banche centrali (la fine del Quantitative easing da parte della Bce e l’aumento dei tassi da parte della Federal Reserve), in una situazione normale, sarebbero intesi come un messaggio di fine pericolo: l’economia ha ripreso a correre e quindi bisogna spegnere i possibili focolai di inflazione. E invece non è così, tranne forse per gli Usa che anche per il 2019 hanno previsioni di crescita, riviste al ribasso sì, ma ancora robuste (del +3% per il 2018 e del +2,3% per il 2019). Per il resto delle principali economie, le prospettive se non negative, sono viste tendenzialmente al ribasso. Insomma, si sta entrando in una situazione di stasi prolungata, ma non ancora di recessione.

È anche il permanere di incertezze politiche, per quanto riguarda l’Europa, a generare pessimismo e a rallentare la dinamica economica anche per la Svizzera: la Brexit ancora irrisolta e l’avanzata di movimenti politici anti-sistema non giovano certamente alla stabilità o alla crescita di nessuna area economica. La leva degli investimenti rallenta e con essa anche la creazione di nuovi posti di lavoro. Se a questo aggiungiamo che l’innovazione tecnologica e l’attuale processo di cambiamento dell’economia verso una dimensione più immateriale (la digitalizzazione, per esempio) e con meno bisogno di lavoro umano, la pressione sui salari e la conseguente tendenza deflazionistica contribuiscono a diminuire la domanda e quindi il reddito ovvero i salari, mentre l’offerta tende ad aumentare. Un processo che la globalizzazione ha incrementato in modo vertiginoso. Anche i flussi finanziari da un’area all’altra del mondo sono aumentati.

In molte economie sviluppate si è in poche parole in una classica situazione di crisi di eccesso di offerta. Non mancano i beni e i servizi, che sono in abbondanza e a prezzi calanti, ma la domanda non è in grado di assorbirli.

Insomma, la legge di Jean-Baptiste Say (economista francese) secondo cui in regime di libero scambio non sono possibili le crisi prolungate, poiché l’offerta crea la domanda, è stata empiricamente smentita più volte nel corso degli ultimi duecento anni di storia economica.

Secondo Say, se in un dato momento si ha un eccesso di offerta, i prezzi tenderanno a scendere. La discesa dei prezzi renderà conveniente nuova domanda. È in tal senso che l’offerta è sempre in grado di creare la propria domanda. Questa idea è puramente ideologica. È sufficiente aprire un qualsiasi libro di storia per rendersi immediatamente conto che duecento anni di storia del capitalismo sono costantemente funestati da ricorrenti crisi di sovrapproduzione e che queste non si sono mai risolte da sole. Non c’è mai stato un caso in cui la capacità autoregolatoria del mercato si sia manifestata. Duecento anni sono tanti per provare una teoria e nel corso di questi due secoli ci sono state ben tre grandi crisi di sovrapproduzione come banco di prova: la Grande Depressione del 1873-1895, la crisi del ’29 e la crisi scoppiata nel 2008. In nessuno di questi tre casi il mercato, lasciato a se stesso, ha saputo riequilibrare domanda e offerta. È sempre stato necessario un intervento dello Stato, talvolta leggero come il protezionismo, talvolta più energico come il keynesismo.

L’attuale fragile situazione economica internazionale è quindi figlia di un decennio di crescita asfittica che non ha permesso di ricreare la domanda sufficiente all’offerta. Nel contempo altri fattori di squilibrio (gli eccessi sui finanziari) non sono stati corretti.

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