Commento

Nuovo nazionalismo etnico e media

Il populismo e la demagogia sono stati sdoganati nel linguaggio pubblico ma i rischi sono sempre i soliti: una deriva anti democratica

(Keystone)
19 dicembre 2018
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“Se non è fascismo che cos’è?” chiedeva retoricamente Erminio Ferrari nel suo commento del 28 novembre scorso. Quanta ragione in quelle settecento parole con cui faceva notare che ovviamente la deriva populista della più recente compagine governativa italiana non è perfettamente sovrapponibile a quella che produsse il Ventennio, ma anche che il suo linguaggio e parecchie delle sue idee sono tali da non lasciare presagire niente di buono. E, dato che, come dice Ferrari, le parole della politica anticipano e giustificano azioni, è bene chiamare le cose col loro nome: se al timone di un Paese ci sono persone che pensano, dicono e tentano di fare cose che somigliano moltissimo ad alcune di quelle pensate, dette e fatte dal regime di Mussolini, come le dobbiamo chiamare?

Il ragionamento solleva una questione molto importante, soprattutto per chi opera nel mondo dell’informazione. La stampa è l’arma più potente nelle mani dell’uomo libero per difendersi dal rischio di ritrovarsi soggetto a un regime autoritario. E non è un rischio proprio remoto. La Repubblica italiana non ha neppure 73 anni. I sopravvissuti alla seconda guerra e ai campi di sterminio nazisti non sono ancora tutti morti. Uno dei problemi è che presto lo saranno.

Il populismo e la demagogia che hanno portato Movimento 5 Stelle e Lega (non più Nord) al potere in Italia sono strumenti di manipolazione dell’opinione pubblica che sono stati raffinati in un secolo buono di sperimentazione. Ripropongono ricette e ideologia di ottant’anni fa che riescono a rivendere a un numero sufficiente di elettori per “buonsenso” grazie alla memoria corta di cui soffre l’essere umano, ma anche attraverso un’opera di persuasione piuttosto metodica. Se è vero che, accusato di fascismo, il popolo dei salvinisti risponde “me ne frego”, è anche vero che gli imbonitori che hanno radunato quel popolo preferirebbero non essere associati al periodo più buio della storia italiana. Non fa bene all’immagine. Rischia di alienare quella parte di elettori che vota Lega a oscillazione e che domani potrebbe scaricarla. Non è un caso che gli specialisti di comunicazione di cui si avvale Salvini gli abbiano suggerito di adottare l’espressione “sovranista” presa in prestito dal Front National francese. La stampa ha subito abboccato. La tentazione era troppo forte. Il sostantivo relativamente nuovo, quasi un neologismo. Permette una variazione rispetto a un vocabolario della politica che tende per sua natura a essere noioso. Così ci viene ricordato ogni giorno che l’ideologia di Salvini è, appunto, il “sovranismo”. Ce lo spiega addirittura Rai 3 – Rai 3! – telediffondendo l’immagine del ministro dell’interno, novello maestro Manzi, che ne spiega i contenuti a una scolaresca. Il termine sta entrando nel lessico comune.

In realtà, il sovranismo di Salvini è in larga parte una declinazione moderna del nazionalismo etnico che partorì fascismo e nazismo. Dargli un nuovo nome non ne cambia la sostanza. È probabile, però, che alla lunga cambi la percezione che ne ha quella fetta di elettori che ha dato fiducia a Lega e 5 Stelle ma che non dice “me ne frego” e riconosce in parecchie delle politiche del governo Conte un odore stantio. Otto decenni di scolarizzazione postbellica hanno cementato nei nostri circuiti cerebrali un’associazione di idee, irrobustita dalla comune radice lessicale, fra la parola nazionalismo e le sua abominevole creatura: il nazifascismo. Quando i giornali descrivono un movimento politico come nazionalista, nella mente dei lettori non possono non essere rievocati gli spettri dello squadrismo, della dittatura, della guerra, dei campi di sterminio. Di Mussolini e di Hitler. Alcuni li ricorderanno con nostalgia, ma i più provano orrore, o quanto meno un senso di fastidio. Quando però gli stessi giornali acconsentono a etichettare i nazionalisti odierni come sovranisti, essi attivano nel lettore un differente schema di interpretazione della loro ideologia e della loro agenda politica. Un diverso frame, per dirla col sociologo Erving Goffman e col linguista cognitivo George Lakoff. Uno schema anche in questo caso sedimentato in anni di esposizione a una certa narrativa. Le parole sovranismo e sovranista richiamano l’ideale illuminista della sovranità popolare, che abbiamo pure appreso a scuola, e quindi l’idea di essere “padroni a casa nostra” che – coincidenza! – è uno dei mantra salviniani. Questo processo di attivazione mnemonica è inevitabile, spiegano gli esperti, e fa a pugni con la nostra razionalità.

I consulenti di comunicazione della destra populista ne sono ben coscienti. Sovranismo e sovranista sono termini benigni e fanno presa in un contesto storico che fatica a conciliare costi e benefici della globalizzazione. Ogniqualvolta queste parole raggiungono le nostre orecchie, non possiamo non pensare al popolo sovrano e alla prospettiva, piuttosto allettante, di essere (ri)messi in condizione di decidere del nostro destino. Se il nostro orientamento è opposto a quello dei salvinisti, faremo cognitivamente resistenza a questo tipo di messaggio. Se, invece, diamo loro ancora il beneficio del dubbio, non lo troveremo un messaggio tanto ripugnante e, con esso, saremo più disposti ad accettare politiche altrimenti stomachevoli. In altre parole: le idee della Lega di Salvini e dei pentastellati che governano con lui restano etno-nazionaliste ma, etichettate continuamente come sovraniste, dopo un po’ diventano digeribili a una porzione sufficientemente ampia di italiani che altrimenti le rigetterebbero. Quindi la stampa che non desidera lasciarsi usare da politici di tale risma farebbe bene a impiegare il meno possibile la terminologia che questi le somministrano. Utilizzare sovranismo e sovranista fuori dai virgolettati del discorso diretto è un pericoloso autogol. Gravissimo è inserire tali termini nei titoli, indipendentemente dalle citazioni. I giornalisti e le testate che lo fanno si rendono loro malgrado strumenti di propaganda del nazionalismo etnico contemporaneo.

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