Commento

I salvati e i respinti

Renata Broggini e Liliana Segre, due destini diversi eppure convergenti nell’ideale che tutti vorremmo elevare a principio regolatore delle nostre vite: la difesa della dignità umana.

(I bimbi di Auschwitz)
10 dicembre 2018
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Quando si dice il destino. Nello stesso giorno (3 dicembre) in cui a Lugano Liliana Segre narrava ai giovani liceali del cantone la sua tragica esperienza di piccola ebrea perseguitata dai nazifascisti, spirava a Locarno Renata Broggini, che al dramma dei rifugiati durante il secondo conflitto mondiale ha dedicato numerosi e apprezzati studi. Le sue ricerche sono note non soltanto agli specialisti. Pubblicate dalle case editrici il Mulino (Terra d’asilo, 1993) e Mondadori (La frontiera della speranza, 1998), hanno disvelato episodi e raccolto voci di sopravvissuti ben prima che la Commissione Bergier avviasse le sue sistematiche ricognizioni, poi riassunte dal presidente nel rapporto finale La Svizzera, il nazionalsocialismo e la seconda guerra mondiale (Dadò editore, 2002).

Nel capitolo V della Frontiera della speranza, sotto il titolo «Non potete restare...», Renata Broggini riportava la testimonianza della Segre tredicenne: «Pochi passi in un bosco, bagnati e intirizziti (era il 7 dicembre 1943), poi ci imbattemmo in una sentinella che ci accompagnò al comando di Arzo... Là un ufficiale svizzero-tedesco, subito odioso, non volle sentire né ragioni, né suppliche, né pianti (miei), anzi mi allontanava con un piede quando, inginocchiata per terra, lo supplicavo di tenerci in Svizzera e, dicendoci sgarbatamente che eravamo degli impostori, ci rimandò indietro scortati da sentinelle armate e sogghignanti». L’autrice, in coda al libro, pubblicava anche l’elenco dei respinti, italiani e di altre nazionalità, nomi ch’era riuscita a scovare nelle sue lunghe e pazienti esplorazioni archivistiche: oltre duecento persone, tra cui, appunto, Liliana Segre con il padre Alberto e il cugino Tullio.

Tra i numerosi racconti diligentemente trascritti, spiccava, alla fine, quello di Lia Foà Errera, in fuga nel gennaio del 1945; ancora pochi mesi e la guerra sarebbe terminata. Russi e anglo-americani erano ormai alle porte del Terzo Reich. Eppure «gli svizzeri respingevano ancora. Venivo da Torino, a Olgiate Comasco il contrabbandiere non poteva farmi passare, mi sono trovata in piena notte sola: ho dovuto aspettare due giorni. Avevo nascosto nella suola delle scarpe un documento che provava la mia ebraicità e, non potendo mostrarlo, le guardie mi volevano mandare indietro: ho dovuto strappare la suola per tirar fuori il documento e riuscire a farmi tenere... Una mia compagna è passata dopo che il marito, ungherese, era stato ucciso vicino al confine e lei, ferita, aveva perso un occhio: esperienza tremenda. Poi, nel campo di Clarens mi sono trovata bene anche se abbiamo dovuto sempre pagare!». Oltre le garitte attendevano i respinti le squadracce fasciste della Repubblica di Salò, un regime criminale al servizio dei nazisti e che operava con particolare zelo nelle operazioni di rastrellamento e deportazione.

La Svizzera, una volta pubblicato il rapporto Bergier, si è messa il cuore in pace. Faccenda chiusa, hanno pensato in molti, dopo che le pressioni esterne l’avevano costretta a riaprire quello scomodo armadio frettolosamente riposto in cantina. Un passato che si rivelava meno luminoso di quanto si era fatto credere per tutto il dopoguerra. Accanto all’ospitalità, alla Croce Rossa, all’aiuto umanitario (prigionieri, orfani, feriti), bisognava ora aggiungere anche il «refoulement» degli ebrei, ossia la pratica del respingimento (allora si preferiva ricorrere all’espressione francese). Un compito storico-civile che Renata Broggini si è assunta con passione e pazienza, e che Liliana Segre ancora svolge nelle scuole e, nelle vesti di senatrice a vita, nei consessi istituzionali.

Certo, quest’opera non è finita. Altri respinti inghiottiti dalla macchina della morte attendono ancora il ricercatore che si occupi di loro. Poi bisognerà dirigere lo sguardo anche ai fascisti che nel nostro cantone trovarono rifugio e protezione, cancellando le tracce. Perché ci furono anche questi, mimetizzati tra la folla. Insomma, tocca agli storici riprendere le indagini là dove la testimonianza si arresta, per scavare più a fondo nel buco nero dell’antisemitismo, individuare relazioni, responsabilità (anche intellettuali, come fu il caso per le leggi razziali), complicità, viltà.

Renata e Liliana: due donne quasi coetanee; due destini profondamente diversi eppure convergenti nell’ideale che tutti vorremmo elevare a principio regolatore delle nostre vite: la difesa della dignità umana.

 

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