Commento

Non sempre i dazi sono sbagliati

La dinamica economica sta rallentando sia a livello nazionale sia a livello globale e le misure protezioniste sono le principali indiziate della prossima crisi

Lo scontro in realtà è tra Cina e Stati Uniti (Keystone)
7 dicembre 2018
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L’anno sta volgendo al termine e dal punto di vista economico è tempo di bilanci e di previsioni. Per quanto riguarda la Svizzera, nelle ultime settimane è un fiorire di cifre e di prospettive tutte rigorosamente riviste al ribasso. Nessuno ancora parla di rischio di recessione, ma la timida euforia degli scorsi mesi (ricordiamoci che aumenti del Pil tra l’1 e il 2% non possono certo essere definiti da congiuntura dinamica anche per economie mature) si sta trasformando in preoccupazione. E quando sul clima economico di un Paese arriva la nuvola della prudenza, gli effetti sulle decisioni di consumo e investimento sono peggiori di quanto paventato. Insomma, si è all’anticamera della recessione.

L’anno scorso invece, sempre di questo periodo, i dati venivano puntualmente rivisti al rialzo dai vari istituti di previsione. Un meccanismo di aggiustamento che risponde a logiche prudenziali e di adattamento dei modelli previsionali adottati dai singoli istituti: partendo dal fatto che bene o male ogni sistema economico ripete il proprio ciclo annuale senza grandi scossoni, il volume della produzione di beni e servizi (l’offerta) aumenta a seconda della domanda di quei beni e servizi. Quest’ultima dipende dal livello di consumi, investimenti, spesa pubblica e dal saldo con l’estero.

Ha destato, per esempio, molta sorpresa il dato registrato dalla Segreteria di Stato dell’economia sul Prodotto interno lordo del terzo trimestre di quest’anno: -0,2% rispetto ai tre mesi precedenti. Un segnale che qualcosa nella dinamica economica si sta fermando. Oltre al rallentamento dell’export (la domanda estera), gli analisti della Seco hanno indicato che anche i consumi interni sono fiacchi.

Ma a preoccupare di più gli analisti di tutte le latitudini è proprio il rallentamento del commercio internazionale, la cui causa sarebbe imputabile alla politica protezionista del presidente statunitense Donald Trump. Se il commercio internazionale si fermasse, anche i motori delle principali economie occidentali non girerebbero più a pieno regime, obiettano i contrari alle misure doganali. Insomma, i dazi imposti da Washington a una serie di prodotti cinesi e ventilati anche nei confronti dell’Unione europea sarebbero sabbia gettata negli ingranaggi della globalizzazione che in questo periodo storico sta rallentando la sua velocità di avanzamento con conseguenze sulla crescita economica. Sono i famosi corsi e ricorsi storici di vichiana memoria. Semplicemente in questo periodo il pendolo della globalizzazione sta compiendo un’ampia oscillazione all’indietro dopo aver fatto troppi e incontrollati balzi in avanti. Colpa dei movimenti sovranisti, incarnati perfettamente dal pessimo Trump o piuttosto del fallimento delle teorie economiche che vedono nella compressione del costo e dei diritti del lavoro, attraverso la delocalizzazione dei processi produttivi, una via facile al profitto di breve periodo?

Perché un’auto prodotta in Europa e importata negli Usa, per esempio, deve pagare un dazio inferiore alla stessa auto assemblata negli Stati Uniti che fa il percorso inverso? All’americano medio e non solo, questo fatto suona molto stonato. Da qui il ricorso a misure che evitino distorsioni del genere. L’annuncio di un paio di giorni fa di un’alleanza tra Ford e Volkswagen, dove quest’ultima utilizzerà impianti Ford per produrre modelli destinati al mercato Usa, va proprio in questa direzione. Lo facessero, per dire, anche Apple, Huawei e altri settori strategici, si potrebbe, se non invertire, almeno rallentare il processo di deindustrializzazione delle economie europee e dipendere meno dalla voce export per sostenere il Pil.

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