Commento

Risvoltini e paltò. Cosa ci ha portato la moda

Le polemiche su Philipp Plein e Luxury Goods fanno temere per la sostenibilità di un settore strategico.

Ti-Press
1 dicembre 2018
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Coco Chanel diceva che “la moda passa, lo stile resta”. Philipp Plein ha imparato la lezione: dalle polemiche sul trattamento dei suoi impiegati (collezione primavera/estate) alla truce campagna del Black Friday (autunno/inverno), il suo stile è rimasto esattamente lo stesso. Il taglio è quello del parvenu da cinepanettone, “da casello a casello in un giro di Rolex”: pago, pretendo.

Che gli si contestino orari impossibili o immagini di donne prese a colpi di mannaia, Plein risponde sempre con la scusa del buon contribuente. Se il femminicidio vende, “significa più tasse pagate al Cantone a fine anno. Il Cantone che tu rappresenti e che ti paga le bollette!”, rimprovera con baritono padronale a Fiorenzo “Dadu” (sic), reo di averlo criticato.

Stropicciatura sessista a parte – ma che tristezza – il ricatto è chiaro: se ti pago la cravatta, posso farne guinzaglio. Ma perché Plein si prende queste libertà? È solo caratteraccio, o è il risultato di un atteggiamento troppo remissivo nei confronti dei ‘megacontribuenti’? Dopotutto a marzo, quando emerse la questione degli orari di lavoro, sindaco e cantone corsero ancora in pigiama a minimizzare, ricevendone in cambio duecento rose bianche. (Vengono in mente le parole di ‘Love Story’: “Amare significa non dover mai dire mi dispiace”).

A questo giro il sindaco ha mandato un messaggio più secco. Attorno a lui però, fra le istituzioni, non si contavano molte schiene inamidate: Ps e Mps, una quindicina di parlamentari assortiti e poco altro. Certo, pochi per fortuna sottoscrivono le stupidaggini del segretario leghista: “Se al posto di una donna ci fosse stato un uomo avrebbero montato la panna allo stesso modo?”; o l’invito, da parte dei suoi sodali in parlamento, a preoccuparsi piuttosto degli “abusi carnali nei nostri centri d’asilo” (lo stile, qui, è da canottiera macchiata di sugo e ascella fumante; tutt’altro che fuorimoda, purtroppo). Ma in generale si nota una certa distrazione.

Oltre all’enorme questione del rispetto della donna, si perde un’occasione per ridiscutere le relazioni fra la moda e il Ticino. Per fare un bel respiro e chiedersi cos’ha portato davvero questo mondo, inseguito per anni con una fiscalità sartoriale e assai larga di manica. Cultura sociale, lavoro, esternalità positive sul territorio: tutti stracci passati nell’armadio dei fuoristagione, di fronte alla promessa del gettito facile. Leggi: parassitismo fiscale, ancheggiante variazione del parassitismo finanziario che accompagnava il segreto bancario.

La mia critica non nasce da velleità anticapitalistiche: l’“eskimo innocente” di gucciniana memoria è in naftalina da un pezzo. So pure benissimo che contribuenti come Plein ci donano più delle proverbiali braghe di tela. Ma la moda in Ticino – sul Cassarate e altrove – è ben lontana dal costituire un comparto solido e duraturo. Capricci e ricatti a parte, è dell’altro giorno la delocalizzazione di Luxury Goods, mentre due anni fa se ne andò Armani. A suo tempo si erano decantati certi investimenti come un taumaturgico vello d’oro: ora si rivelano un cappottino che non dura un inverno.

Nel frattempo, fra modaioli e altri avventurieri, si assiste alla desertificazione di città come Lugano. Anche se ‘città’ ormai è una parola grossa: mentre i giovani ricominciano a emigrare, sull’uomo in frac “si spegne anche l’insegna di quell’ultimo caffè”.

Poi forse ho io un’immagine idealizzata del buon capitalista: gente in paltò e borsalino, senza risvoltini e scarpe borchiate. Sia come sia, “il lusso se ne va, ma i cittadini restano”, come si è notato recentemente su queste pagine. I soldi della moda possono pure rimpinguare le casse pubbliche, finché ce n’è: ma non devono distrarre i loro cassieri dalla ricerca di sviluppi alternativi. Perché un conto è paracadutare qui imprese che generano solo fatture, un altro attrarre investimenti che creino lavoro (magari anche pagato seriamente, se non è chiedere troppo) e vero indotto.

Più facile a dirsi che a farsi, per carità. Reagire con un “fuori tutti” sarebbe puro autolesionismo, e la politica locale non può trovare da sola una soluzione. Deve però riconoscere le sue responsabilità, per non ripetere gli stessi errori nei settori più promettenti per il futuro, dalle biotecnologie alla meccatronica. Chissà, magari si possono reinvestire certi incassi su chi rispetta criteri più rigorosi di radicamento e sostenibilità, anche se ci sarà sempre qualcuno che liquida queste intenzioni come troppo dirigiste (ma il laissez faire non è il solo modo per essere liberali). L’alternativa è un guardaroba di imprese aliene e alienanti, coi loro prevedibili accessori: sfiducia civica e perdita del senso di comunità. Dai diamanti non nasce niente, dalle giacchette dozzinali molto poco.

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