Commento

Il mondo di Trump: fate come volete, basta pagare

La strategia globale del presidente Usa non è una strategia, e non è globale

“Tentare goffi voli d’azione o di parola / volando come vola il tacchino” (F.G.) - Keystone
23 novembre 2018
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“America First! Il mondo è un posto pericolosissimo!”. Se a scrivere così fosse un bimbo di sei anni, ci sarebbe già di che preoccuparsi. Ma questo tripudio di sciovinismo, paranoia e punti esclamativi viene dal presidente degli Stati Uniti d’America: apre la sua presa di posizione sui rapporti con l’Arabia Saudita, la monarchia assoluta che fra le altre cose ha fatto a pezzi il giornalista Jamal Khashoggi (le ‘altre cose’ includono una guerra in Yemen con 85mila bambini morti di fame; il sequestro del primo ministro libanese Saad Hariri; la diffusione globale dell’estremismo wahhabita). Per il resto, la ratio dello ‘statement’ è chiarissima: l’Arabia Saudita è un alleato perché ci dà un sacco di soldi, quindi può fare ciò che le pare.

Il testo contiene un sacco di insinuazioni e di balle. Il principe Bin Salman sapeva dell’omicidio? “Forse sì, forse no” (la Cia dice che lo sapeva). Se si rompessero le relazioni con l’Arabia Saudita, si perderebbero contratti per “450 miliardi” di cui “110 nel settore della difesa”, e “a beneficiarne sarebbero Russia e Cina” (i numeri sono gonfiati; gli armamenti russi e cinesi non sono compatibili con i mezzi sauditi). Poi, dopo avere citato senza smentirle le accuse a Khashoggi “membro dei Fratelli musulmani”, il benaltrista Trump grazia Mbs suggerendo che il vero problema è semmai l’Iran.

Ma non si tratta solo di Arabia Saudita. Lo stesso approccio innerva la ‘dottrina Trump’ in politica estera: se paghi, sei dei nostri. Le relazioni internazionali intese come accordi commerciali. Le esigenze dell’ordine globale passano in secondo piano, come dimostrano il flirt coi dittatori russo e nordcoreano e la strigliata data agli alleati della Nato.

Inutile fare gli ingenui: il ruolo dell’America sulla scena globale non è mai stato solo quello di difensore delle democrazie, di “faro sulla collina” che illumina la via verso la libertà. La stessa alleanza con l’Arabia Saudita, con tutti i suoi compromessi, precede di molto questa amministrazione. Né si può pensare, più in generale, che nei rapporti fra Stati i valori vengano prima dei rapporti di forza. Già Franklin Roosevelt, quando lo interrogarono sull’opportunità dell’alleanza con un despota centramericano, tagliò corto: “È un figlio di buona donna, ma è il nostro figlio di buona donna”.

Solo che la rapsodica politica trumpiana non ha alcunché della Realpolitik. Non è una strategia consapevole, mirata a consolidare rapporti di forza favorevoli agli Usa e alla loro sicurezza. Quella in atto è una ritirata dalla scena mondiale, uno sfilare il tappeto da sotto all’ordine mondiale che ha garantito agli Usa enormi dividendi (e al quale l’Europa deve la sua libertà). Una tendenza già visibile negli ultimi anni di Obama, con molto a che vedere con l’erodersi del primato americano. Ma mai nessuno l’aveva gestita in modo così dilettantesco, riducendo la diplomazia a strette di mano da piazzista, come se il carisma personale potesse supplire all’assenza di visione. Il tutto in barba agli stessi interessi americani, per i quali in realtà Trump chiede poco o niente: nulla al principe sulla stabilizzazione dello Yemen e del Medio Oriente, nulla a Putin sulle sue guerre di confine e sulle ingerenze nella politica americana, nulla a Kim circa un effettivo disarmo nucleare. Nell’illusione che l’America possa davvero tenere certi problemi fuori dalla porta e farsi gli affari suoi. È il sovranismo, bellezza.

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